I complessi di Dante
Le Ore – n°2 – 13 gennaio 1966

Fra tanti studiosi, storici, letterati che hanno scritto del Sommo Poeta nel suo settimo centenario, nessuno ha pensato di stenderlo idealmente sul divanetto del psicanalista, per studiare i contenuti medici dell’opera di un uomo che pure apparteneva all’« arte dei medici e degli speziali ». Lo ha fatto per noi il professor Emilio Servadio. Vediamo dunque quali furono.
I contributi degli studiosi alle celebrazioni dantesche, nel settimo centenario della nascita dell’Alighieri, hanno avuto soprattutto carattere letterario, esegetico, storico. E’ capitato raramente, ad esempio, che qualcuno si occupasse nel 1965 dei contenuti medici dell’opera di Dante, che all’« arte » dei medici e degli speziali pure apparteneva. Nessuno, poi, è sembrato ricordarsi che Dante aveva, al pari di tutti, una « storia familiare », e che è ormai dimostrata l’incidenza delle vicende familiari e individuali di un artista – si tratti di Dante o di Leonardo, oppure di una mediocrità – su molti aspetti delle sue stesse creazioni. Le «incertezze» sessuali di Leonardo – tanto per dirne una – si rispecchiano nell’ambiguità ermafroditica di taluni suoi personaggi. E vogliamo proprio pensare che l’aspra polemica di Dante contro un certo tipo di autorità corrotta, od il suo sublime trasporto per una figura « angelicata » di donna, non avessero radici nelle sue vicende psicologiche di base, nelle stesse caratteristiche del suo dramma più intimo e personale?
A prescindere dal valore di un’opera letteraria o artistica, è possibile, in diversi casi, tentarne una interpretazione (con tutte le cautele che uno studioso seno non manca d’imporsi) come se, anziché di un prodotto elaborato dell’ingegno, si trattasse di un sogno a occhi aperti, dettato da aspirazioni e da esigenze in buona parte ignote allo stesso autore. Prima dell’avvento della psicoanalisi, non pochi saggisti e psicologi avevano già cercato di mettere in rapporto certe espressioni artistiche o letterarie con vicende, sentimenti o avventure dei rispettivi autori. Le grandi scoperte di Freud relative all’inconscio psichico, ai complessi di base, ai conflitti incoscienti, e alla attività fantastica – diurna e notturna – della mente umana, hanno permesso di aggiungere un’altra, importantissima dimensione all’analisi delle opere d’arte in rapporto alle personalità e ai problemi dei loro creatori. Lo stesso Freud diede, di tale nuovo modo di procedere, alcune dimostrazioni famose, come per esempio il saggio Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci. Sulla stessa linea lavorarono numerosi altri psicoanalisti: Ernest Jones si occupò di Shakespeare e dell’Amleto, René Laforgue di Baudelaire, Maria Bonaparte di Edgar Poe, Phyllis Greenacre di Swift e di Lewis Carroll… L’elenco potrebbe continuare e si arricchirà molto presto di un nuovo, importante contributo: un’opera su Dante Alighieri, alla quale sta lavorando da vari anni un noto psicoanalista argentino, il dottor Mauricio Abadi. Questo chiaro studioso ha voluto manifestare il suo interesse per l’Italia, per Dante, e per le celebrazioni dantesche, recandosi, poche settimane fa, appositamente da Buenos Aires a Firenze, dove ha tenuto un’applaudita conferenza sul tema. A nostra volta, e procedendo sulla sua traccia, daremo qui qualche ragguaglio su ciò che la psicoanalisi può dire in merito alle vicende psicologiche di Dante, e ai loro riflessi soprattutto sulla Divina Commedia.

I traumi del Poeta

Dobbiamo in primo luogo sottolineare il fatto che gli eventi dell’infanzia e della prima fanciullezza lasciano un’impronta indelebile su qualsiasi individuo – mediocre od eccelso, sano o nevrotico, burocrate od artista, criminale o santo che sia. Il mondo poetico di Edgar Allan Poe è popolato di vicende e di personaggi (tra i quali le sue celebri donne esangui, fantomatiche funeree) che riflettono sin truppo chiaramente i suoi traumi infantili, specialmente quello della morte della madre, distrutta dalla tubercolosi quando il futuro, grande scrittore americano non aveva che tre anni. Nell’uomo qualsiasi, l’elaborazione inconscia degli avvenimenti e delle impressioni infantili influisce sulle scelte, sul comportamento, sui modi di pensare, sulla vita sentimentale, sui sogni notturni. Ma nessuno – ripetiamo – può sfuggire a questo destino: neppure il più grande fra gli artisti creatori, neppure Dante Alighieri.
Tra gli eventi principali della fanciullezza di Dante figurano la morte della madre quando egli aveva cinque o sei anni, la sua posizione di figlio unico sino a quel momento, la mediocrità del padre, il nuovo matrimonio di questi, e la comparsa nel cerchio familiare sia di una matrigna, sia di due sorellastre. Poco tempo dopo, il padre moriva (quando Dante era alle soglie della pubertà). Nel frattempo – come egli stesso ci apprende – era avvenuto il primo, fatale incontro con Beatrice fanciulla. Non molto tempo dopo, si erano stabiliti rapporti di discepolo a maestro fra Dante e Brunetto Latini, « cara e buona immagine paterna ». Troviamo dunque in momenti evolutivi importanti della fanciullezza e della prima giovinezza dell’Alighieri alcuni gravissimi traumi, presumibilmente accompagnati da reazioni di « abbandonismo », di sfiduciata competizione, di sdegno, o di avvilimento oltre alla contrapposizione di ligure maschili o femminili nettamente «buone» o «cattive». Il sentimento della morte, e gli angosciosi quesiti a essa relativi, possono essersi ulteriormente intensificati in Dante con la scomparsa dal suo orizzonte psichico di Beatrice, a soli 24 anni.
Anche se volessimo, al seguito di vari studiosi, considerare Beatrice come un’immagine puramente astratta, e non corrispondente neanche dall’inizio a una persona reale, rimarrebbero sempre, fra gli aneliti ispiratori del Poeta, il cupo « perché » relativo alla morte della madre Bella, il desiderio di un « padre » migliore, l’astio contro le invadenti sorellastre, la ira contro le ingiustizie della sorte e la malvagità umana, il sentimento della propria pochezza, la ricerca – infine -, di una perfetta figura materna, e di una non peritura felicità.

Il motivo della morte

In prima istanza, la Divina Commedia potrebbe dunque essere intesa come un tentativo di raffigurare, elaborare e superare il motivo della morte e delle sue angosce. L’Inferno costituirebbe una ripetizione della vita intrauterina; i nove cerchi rappresenterebbero i mesi della gestazione, e il capovolgersi del protagonista al fondo stesso dell’« imbuto » infernale (= uterino) sarebbe una precisa rappresentazione dell’angosciosa venuta al mondo. Nel Purgatorio, ci appare un procedere doloroso verso l’affrancamento, ma in una situazione pur sempre legata ai vincoli terrestri. Nel Paradiso, sarebbe raffigurato il volo finale, stupendo e vertiginoso, verso la libertà, tutelata da figure paterne e materne sempre più idealizzate e sublimi…

Le tre fiere

Ma nel contempo, Dante avrebbe rielaborato, in tutta la Commedia, e particolarmente in taluni celebri incontri o episodi, le sue più tipiche situazioni traumatiche, le ansie e i dolori della sua giovane età. Al profondo sentimento della propria indegnità (il bambino, che si vede « messo al margine », si ritiene in qualche modo colpevole, e si auto-accusa), corrisponde il lungo processo di espiazione, il viaggio nel « doloroso regno », e la faticosa ascesa su per il monte del Purgatorio.
Lo sdegno contro le « ingiustizie » subite si manifesta nel suo porsi come giudice e accusatore di « autorità » considerate indegne, e di ogni sorta d’uomini o di eventi. L’insoddisfazione nei riguardi del genitore meschino ed incolto trova compenso nella « scelta » di Virgilio, venerato come maestro e guida, e definito « dolcissimo padre ». La ripugnanza nei riguardi della matrigna e delle sorellastre si esprime nella descrizione, subito all’inizio dell’Inferno, delle tre fiere che gli sbarrano il cammino (e c’è persino chi ha voluto vedere una significativa somiglianza tra la terribile « lupa » del Canto I e l’odiata matrigna, che aveva nome « Lapa »!)… E che dire di Beatrice, che gli riappare a tutta prima quale figura di madre giusta, e un tantino severa mentre Dante stesso sta dinanzi a lei come un bambino in cerca di affetto e di perdono -, e che poi si raddolcisce e si trasfigura, assommando infine in sé ogni possibile, umana perfezione?

Le scoperte di Freud

Da un punto di vista psicoanalitico (in senso lato), si può dunque considerare la Divina Commedia come un formidabile tentativo quale solo a un poeta d’eccezione era dato effettuare di elaborare e risolvere certi problemi personali ed essenziali, relativi alla ricerca del passato, alla condanna dei malvagi, alla sconfitta della morte, alla rinascita, alla purificazione dalla colpa, al ritrovamento della madre perduta, ai superamento beatifico di ogni alterità e dì ogni dualismo. Ma non sono forse questi i temi eterni che ogni uomo, in fondo, a un certo pulito si propone? E non dobbiamo pertanto riconoscere nella Divina Commedia un’allegoria, oltre che di talune vicende psicologiche di Dante, anche della vita umana in generale, vista al microscopio della psicoanalisi?
Dante ci appare qui finalmente – alla stregua di molti grandissimi artisti – quasi un anticipatore della nuova psicologia fondata da Freud. E’ noto che questi considerava suoi « maestri » i tragici greci e Shakespeare, assai più che i neurologi viennesi o d’oltre alpe dai quali aveva preso lezione. A Firenze, Mauricio Abadi ebbe a dichiarare che Dante era « un collega » – suscitando il compiacimento divertito di molti ascoltatori -. Lasciando comunque da parte ogni definizione troppo precisa, e che potrebbe suonare anacronistica, è pur vero che nella Commedia, interpretata con criteri psicoanalitici, non si può non vedere anche l’espressione di motivi psicologici fondamentali ed eterni, e nella problematica di Dante un ampio riflesso di ciò che condiziona, angoscia od esalta la umanità tutta intera.

La poesia dell’inconscio

E’ stato giustamente detto e vi allude Dante stesso – che la Divina Commedia si può interpretare in vari modi e a vari livelli, i quali tuttavia sono complementari, e non si contraddicono. Abbiamo indicato, ad esempio, come il girarsi su se stesso di Dante nel fondo dell’Inferno possa rappresentare il rivolgersi del feto al momento della nascita. E’ tuttavia altrettanto valida la spiegazione letterale fornita dal Poeta: che cioè al centro della terra un uomo dovrebbe di necessità mettere la testa al posto dei piedi! Ed è non meno vero il significato simbolico, o allegorico, di un simile « rivolgimento » : il quale è pur quello, puramente interiore, che deve compiere colui che giunto nel più profondo dei propri abissi psichici si accorga che per « risalire » occorre mutare radicalmente prospettiva, adottando misure e modi di sentire polarmente opposti a quelli precedenti. Analogamente l’interpretazione storica di molti episodi e di molti personaggi della Divina Commedia non contraddice quella di chi ha veduto in essi raffigurazioni e « proiezioni » inconsce di immagini che Dante portava con sé fin dall’infanzia; o quelle di chi vi ha intravisto allusioni e simboli di realtà e di esperienze religiose, esoteriche, metafisiche…
L’argomento, come si vede, è praticamente senza fine. Ma per terminare, comunque, osserveremo che le interpretazioni di tipo psicoanalitico non solo non tolgono nulla alla grandezza di Dante, bensì, se possibile, la esaltano. Poiché se è prerogativa dell’uomo della strada trasferire in pensieri e in comportamenti comunque meglio articolati e più evoluti le esperienze elementari del proprio mondo infantile, che cosa dovremmo dire di un uomo che ha saputo trasfondere tali esperienze in altissima sinfonia creativa, donando all’umanità un monumento incomparabile di scienza psicologica, di conoscenza e di poesia?

Emilio Servadio

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