Uno psicanalista giudica « Tutte le sere alle 9 »
La Tribuna Illustrata 14/01/1968

«Tutte le sere alle nove» di Jack Clayton è stato presentato nel settembre scorso alla Mostra Cinematografica di Venezia. E’ un film che racconta una vicenda inconsueta di cui sono protagonisti sette ragazzi dai 4 ai 13 anni: Elsa (Margaret Brooks), Hubert (Louis Sheldon Williams). Dunstan (John Gugolka), Diana (Pamela Franklin), Jiminee (Mark Lester), (Gerty (Sarah Nicholls), e Willy (Gustav Henry). I sette ragazzi, per paura di essere mandati in un orfanotrofio, tengono nascosta la morte della madre. La seppelliscono nel giardino della casa, in una tomba rudimentale, che chiamano «tabernacolo» e ove trasportano tutte le cose che appartengono alla loro mamma. Così, continuano la loro esistenza come se nulla fosse accaduto, come se la madre fosse ancora in vita, tanto che hanno allucinanti colloqui con lei tramite uno di loro che fa da medium. Questo inusitato comportamento un giorno viene spezzato dall’arrivo di Charlie (Dick Bogard), loro padre, beone, amorale e donnaiolo, che non hanno mai conosciuto, ma del quale subiscono, restandone affascinati, la vivacità e i modi di uomo navigato. Tanto che, tranne la ragazza più grandicella, finiscono per dimenticare la madre morta. Quando però Charlie, che nel frattempo ha dilapidato i risparmi della morta e ne ha messo in vendita la casa, in uno sfogo amaro e cattivo insulta la memoria della loro madre, i ragazzi si ribellano e lo uccidono. Il film mette in risalto il mondo favolistico e innocente che traspare dal comportamento dei sette ragazzi, che d’un tratto si trovano a contatto con la realtà dura, esasperante e cinica degli adulti. Per questo film, dai significati profondi e complessi, abbiamo pregato di far da critico un notissimo psicanalista di fama mondiale, il professor Emilio Servadio.

L’ idea di fare di una persona defunta la fons et origo di una serie di vicende che accadono dopo la sua morte non è nuova (basti pensare al celebre romanzo di Daphne Du Maurier, da cui fu tratto il film Rebecca). Ma il «trattamento» di tale motivo nel film «Tutte le sere alle nove» è particolarmente azzeccato dal punto di vista psicologico e psicopatologico, nonché – se ci è consentito dare un giudizio in una sede diversa dalla nostra – poetico.
L’eredità psicologica lasciata dalla morta – madre di sette figli – condiziona la compagine di questi nuovissimi Enfants terribles in modi che dimostrano senza possibilità di dubbio il grave disturbo psichico della genitrice: disturbo che non raggiunge, nella prole, forme propriamente « da ricovero », perché trasmutato in un clima surrealistico e magico, proprio al mondo mentale di bambini o di giovanissimi alle cui vicende ed esperienze psicologiche manchi il correttivo di un costante « esame di realtà », al quale essi siano indirizzati da persone adulte « adattate » e sicure di sé.
Non a caso abbiamo citato gli Enfants terribles. In questo famoso romanzo di Cocteau, l’atmosfera è abbastanza simile a quella di «Tutte le sere alle nove». Come nel romanzo, i fanciulli del film qui esaminato vivono e operano in una dimensione favolosa e crudele, in cui la fantasia e il delirio sono costantemente agiti», e con tale compunta serietà, da imporsi per vario tempo anche a qualcuno dei «grandi» con i quali essi vengono fugacemente a contatto. In guisa assai suggestiva, gli adulti in questione, che dovrebbero essere assai più « concreti » di costoro, appaiono invece spesso impalliditi e vaghi, come se fossero loro gli abitanti di un mondo di ombre e di riflessi.
Le aberranti leggi del gruppo, rigorosamente osservate, finiscono per influenzare in qualche momento persino gli spettatori. E appare quasi plausibile ciò che per tutti i ragazzi, anche per quelli ormai prossimi alla pubertà, sembra ovvio e naturalissimo, come seppellire il cadavere della madre in giardino, ed evocare ogni sera, in riunioni di tipo medianico, la madre stessa, il cui « spirito » impone orientamenti e decisioni. Difficile dire chi, nel gruppo, rappresenti l’elemento catalizzatore. Forse la ragazzina che cade regolarmente in una sorta di « stato secondo », o trance sonnambolica, e che si identifica ovviamente, sebbene inconsciamente, con la madre scomparsa. Il dondolio della poltrona in cui la predetta ogni sera si pone a mo’ di oracolo sembra scandire il ritmo ricorrente di un’assurda cerimonia neoromantica e familiare.
Caratteristico di questo eccezionale e allucinante assieme – analogamente a quanto accade nell’opera di Cocteau – è il ripudio, cosciente o inconscio, della sessualità di tipo adulto, e l’inchiodamento degli impulsi istintivi a livelli sadomasochistici. Una delle bambine viene atrocemente punita dal gruppo, sol perché ha osato fare un giro in motocicletta con un uomo, e dargli un bacetto affettuoso. Risuonano ogni tanto cupamente, tratte o ispirate dal testo biblico, terribili condanne dei « peccatori » e del « peccato ».
Le ragazze più grandi non hanno flirts di alcun genere, e appaiono chiuse alla sessualità come tante vergini di ferro.
Gli adulti che a un certo punto s’introducono stabilmente nella vicenda sono costretti alla difensiva, e lo fanno come possono: con l’indifferenza, o con il ripicco rabbioso. L’acida governante, che già aiutava la madre nelle faccende domestiche, cerca di sovrapporsi e d’imporsi, ma viene fatalmente estromessa. Il marito della defunta, richiamato infine al domicilio da cui si era per lungo tempo allontanato, viene anch’egli gradualmente e irrimediabilmente sconfitto. Invano cerca d’inserirsi nel « mondo magico » che si è costituito in sua assenza. Poco a poco, è messo ai margini, costretto a rivelarsi nei suoi aspetti deteriori, di uomo a cui piacciono – orrore! – il whisky e le donne. Giocatore e scialacquatore, egli si rende infine colpevole del reato massimo: il vilipendio – non si sa se giustificato o meno – della «grande madre» sparita. E il gruppo lo elimina, uccidendolo senza esitazione.
E i « fanciulli terribili » si allontanano poi silenziosamente nella notte – forse verso il mondo della realtà adulta, forse verso quello del sogno, del delirio e del mito.
Il film appare – lo abbiamo detto – psicologicamente indovinato e valido. In primo luogo esso mostra, sia pure in modi fantastici e allegorici – l’enorme importanza dell’imago materna, e l’atroce irrazionalità di una situazione in cui tale imago domini incontrastata: situazione che estende oltre ogni limite quella fase primitiva di evoluzione psichica infantile che in termini psicoanalitici viene chiamata « pre-edipica». Ma il film vale inoltre, sempre dal punto di vista psicologico, per aver mostrato, a chi può intenderlo, quanto intrinsecamente il mondo interiore dei bambini e dei giovanissimi differisca da quello che ci piacerebbe credere e pensare.
Abituati come siamo a vedere bambini e ragazzini dimensionati e foggiati dai nostri quadri familiari e sociali, ci accorgiamo qualche volta con sgomento di che cosa possa agitarsi, in loro, «oltre la facciata»… Ma siamo poi sicuri che le nostre dighe, i nostri criteri, il nostro mondo d’esperienza siano i soli validi? Il grande psicologo americano William James scriveva già nel 1902 che « la nostra coscienza normale, quando siamo svegli… non è che un particolare tipo di coscienza, e tutt’intorno, separate da essa dal più tenue degli schemi, si trovano forme potenziali di coscienza completamente diverse. ».
Come considerare queste « forme potenziali »? Come situarci rispetto ai mondi e alle esperienze dell’allucinazione, dell’estasi, del «viaggio psichedelico» o semplicemente alle modalità dello psichismo infantile quando questo sia abbandonato completamente a se stesso? Questo è l’interrogativo che il film «Tutte le sere alle nove» non può non lasciare, con i suoi inquietanti riecheggiamenti, in parecchi di noi.
prof. Emilio Servadio

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