Psicoanalisi e letteratura
Rivista di Psicologia, 1936, pp.226-233

A tutti coloro che hanno qualche nozione di psicoanalisi è noto che una fra le più importanti scoperte di FREUD prende la sua denominazione da una leggenda greca, la quale ha trovato espressione quanto mai potente e drammatica nell’« Edipo Re » di SOFOCLE. Ogni qual volta si nomina la «situazione edipica », il «complesso edipico» e via discorrendo, il pensiero corre immancabilmente alla tragica figura immortalata dal poeta ellenico, allo sciagurato sovrano che un cieco destino, una forza oscura e formidabile spinge ad uccidere il padre e a sposare la madre. Ritrovando, in base a un’infinità di constatazioni, tale situazione nucleare – rivalità verso il genitore di ugual sesso, amore verso quello di sesso opposto – nella psiche della pluralità degli individui a una data epoca del loro sviluppo, la psicoanalisi ha potuto spiegare perchè questa tragedia, e le opere letterarie che in vario modo ripetono situazioni del genere, abbiano di tutti i tempi esercitato un’impressione così profonda sull’animo umano. Si è venuti in altre parole a riconoscere che nell’opera letteraria, e in talune grandi creazioni in modo speciale, possono venire espresse in forma più o meno velata ed enigmatica tendenze profonde dell’individuo: tendenze, vogliamo dire, che l’uomo civile respinge e ripudia, ma il cui richiamo è tuttavia tale da commuoverlo intensamente, sol che esse gli vengano poste innanzi sotto la specie della finzione artistica. La psicoanalisi ha potuto dunque recare contributi notevoli alla comprensione psicologica dell’opera letteraria, anche se si è riconosciuta incompetente ad entrare in merito ai problemi estetici come tali.
Abbiamo citato l’« Edipo Re » perchè ci è sembrato sintomatico il fatto che proprio da una figura letterariamente celebre il FREUD abbia tratto una delle sue formulazioni più importanti e più note. Potremo ora aggiungere che di molti particolari relativi alla tragedia di SOFOCLE la psicoanalisi è riuscita a render ragione. Da che cosa, per esempio, trae la sua terribile forza drammatica la situazione presentataci dal poeta? Evidentemente dal fatto che il protagonista, Edipo, appare in balia di una forza che lo sovrasta, e nelle cui mani egli non è altro che una vittima cieca e inconsapevole. Il poeta ha identificato questa forza trascinatrice nel destino ineluttabile, contro cui può riuscir vana ogni ribellione. Non è stato difficile alla psicoanalisi riconoscere che tali caratteristiche sono quelle, ben note, delle tendenze istintive inconsce, contro cui l’uomo impegna momento per momento, nella sua evoluzione, lotte veementi, che non sempre terminano con la sua vittoria. Il meccanismo d’autopunizione, per cui Edipo, una volta informato di quanto ha commesso, si acceca, abdica al trono e va in esilio, nonostante l’assoluta e completa involontarietà del suo precedente agire, si può a sua volta comprendere assai meglio quando si conoscano, sulla base dei reperti psicoanalitici, i meccanismi che generano nell’individuo il sentimento di colpa e il bisogno di castigo, spesso del tutto sproporzionati e incoerenti rispetto ad atti che egli abbia o creda di aver compiuto.
Per mostrare come la situazione edipica, su cui or ora ci siamo soffermati, possa ritrovarsi, modificata, in opere letterarie cronologicamente e artisticamente diversissime, vorrei ora richiamare un altro dramma famoso, a proposito del quale si sono versati e si continuano a versare fiumi d’inchiostro: l’ «Amleto » di SHAKESPEARE. Il carattere problematico della figura di Amleto è quasi un luogo comune, e i critici per lungo tempo si sono affannati a cercarne una giustificazione. Amleto si trova di fronte ad alcuni fatti ben precisi: suo padre è stato ucciso dal fratello (zio di Amleto), che ne ha usurpato il trono, e ha sposato la madre del protagonista. Perché questi esita ad agire?
Perchè non ottempera al comando dello spettro paterno, uccidendo lo zio e vendicando così il misfatto? Da quali forze contrarie è trattenuto ? Il FREUD – e con maggiori particolari il JONES – hanno dato della condotta di Amleto l’unica spiegazione psicologica plausibile.
Amleto esita perché l’uccisione del padre e il sostituirsi a lui presso la madre sono il portato estremo di sentimento che egli stesso albergava nel suo inconscio: cosicché se da un lato è in lui la tendenza cosciente a vendicare l’atto delittuoso, d’altro lato egli nutre inconsapevolmente un’ammirazione mista ad orrore per chi ha saputo realizzare quanto a lui non era stato possibile compiere. Da qui la sua irresolutezza, che il poeta ci mostra protrarsi finché – anche qui come nel caso di Edipo il sentimento di colpa – qui inconscio non lo conduce al castigo, sì che egli trova la morte insieme con le sue vittime. L’interpretazione or ora sommariamente accennata risolve il problema fondamentale dell’atteggiamento di Amleto, atteggiamento che SHAKESPEARE ci ha presentato, beninteso, senza rendersi affatto conto di ciò che esso profondamente significasse, per quella sorta di meravigliosa penetrazione intuitiva dell’animo umano di cui gli artisti ci hanno dato e ci danno tanti esempi. Dal citato lavoro di JONES chi lo desiderasse potrebbe poi apprendere un’infinità di altri particolari intorno al « contenuto latente » dell’immortale tragedia.
Ma la situazione edipica, anche se importantissima, non esaurisce certo le varie possibilità di raggruppamento di istinti, affetti e idee intorno a un tema centrale per lo più inconscio; non è cioè, il solo «complesso psichico » studiato dalla psicoanalisi. Per quanto i. « complessi » fondamentali, di cui abitualmente si parla perchè tipici del primo sviluppo della psiche infantile, non siano più di tre o quattro, ne sono stati ravvisati parecchi altri, ai quali spesso è stato dato il nome di questo o quel personaggio celebre tratto dall’antica letteratura e mitologia, analogamente a quanto il FREUD si è sentito autorizzato a fare per il complesso di Edipo. Si è parlato così di un «complesso di Medea », per indicare la situazione, per, solito del tutto inconscia, della madre gelosa dei propri figli, e più particolarmente dell’affetto che il marito rivolge a loro anziché a lei soltanto. Per la gelosia inconscia del padre nei riguardi del figlio si è invece parlato, certo non molto adeguatamente e propriamente, di un « complesso di Laio » (il padre di Edipo); e via discorrendo. Tali e molti altri «complessi » si ritrovano non solo nelle più famose tragedie e leggende dell’antichità, ma anche in una quantità di situazioni presentateci da poeti e da letterati di epoca posteriore, sino ai romanzi di un DOSTOIEVSKIJ o ai drammi di un PIRANDELLO. Chiarendo queste situazioni, enucleandole per così dire dalle infinite variazioni e sovrastrutture cui lo scrittore, nel suo « lavoro artistico » (da raccostarsi al «lavoro onirico » che presiede alla formazione del sogno), le ha sottoposte, la psicoanalisi reca un contributo di prim’ordine a una più esatta comprensione dell’opera letteraria, e spesso anche della personalità stessa dello scrittore. Gli studi compiuti da vari psicoanalisti su scrittori come HOFFMANN, STENDHAL, POE, BAUDELAIRE, KELLER, STRINDBERG, PROUST, HAMSUN, ecc. hanno gettato nuove luci sulla loro vita e sulla loro opera, e non potrebbero venir trascurati dagli esegeti e dai critici. Ritengo per mio conto assolutamente impossibile, p. es., che si possa oggi compiere uno studio critico sull’opera di EDGAR POE prescindendo da ciò che lapsicoanalisi, nella persona di MARIE BONAPARTE, ha saputo dire in merito alla individualità psicologica e agli scritti del grande americano.
Novelle misteriose e sconvolgenti come « Il barile di Amontillado » o « La caduta della casa degli Usher» acquistano nell’interpretazione di MARIE BONAARTE un risalto che non lascia di sorprendere; e lungi – come taluni suppongono – dall’apparirci in tal modo artisticamente diminuite, ci fanno ancor più ammirare il genio dello scrittore, cui un dono inestimabile della natura -la virtus poetica – ha concesso di superare la propria stessa materia, risolvendola, dagli impulsi che urgono nell’inconscio oscuro, in flora spettacolosa e travolgente, in luce altissima di creazione.
L’esame accuratissimo e documentato della vita di EDGAR POE ha permesso alla BONAPARTE di ravvisare l’origine prima delle ben note anomalie psichiche dello scrittore in una « fissazione » infantile alla madre, Elizabeth Arnold, morta tisica allorchè POE non aveva ancora tre anni. La «fedeltà inconscia» alla madre morta, e l’impossibilità di superare un evento infantile che aveva dovuto polarizzare ogni sua energia psichica, portano da un lato il POE a ricercare di continuo, nella sua vita adulta, donne che per l’aspetto etereo e funebre rappresentino una sostituzione dell’immagine materna (si pensi per esempio al suo matrimonio con la cugina Virginia Clemm, morta poi anch’essa di consunzione); d’altro lato ad esprimere per mezzo dell’arte, trasfigurati dalla magia dello stile, e dalla simbolistica di cui è prodigo l’inconscio, fantasmi appartenenti, in nuce, al mondo torbido e immaginario della prima infanzia. La corrispondenza delle principali figure femminili nell’opera di POE – Berenice, Morella, Ligeia a quella esangue, bellissima e spettrale della madre, appare ormai oggi evidente, per merito della BONAPARTE, anche a critici e a studiosi non psicoanalisti.
La « fissazione all’immagine materna », che ci è presentata volta a volta sotto le spoglie di donna inaccessibile, sognata, lontana, mitica, fiabesca, ecc. – è un tema ben noto della letteratura di tutti i tempi. L’eroe – si chiami Issione o Sigfrido o Jaufré Rudel – aspira a una donna irraggiungibile, e per lo più incontra la morte come pena del suo atteggiamento più o meno inconsapevole. Una forma tipica di conflitto tra una simile tendenza e il continuo desiderio di sottrarvisi ci è invece presentata nella figura letterariamente celeberrima di Don Giovanni. La caratteristica fondamentale di Don Giovanni non è la sua esuberanza amatoria, bensì la sua infedeltà alle singole donne che via via conquista e abbandona. Egli ci appare sempre in cerca di un oggetto amoroso che non riesce a definitivamente trovare, e fugge dalle braccia di ogni nuova amante come spinto da una forza persecutoria. Crede ogni volta di aver soddisfatto la propria aspirazione, ma presto è disilluso: « non è questa, non è questa! ». Quale donna dunque egli cerca? La psicoanalisi riconduce questo continuo sentirsi attratto e poi deluso di Don Giovanni all’inconscia fissazione alla madre. Ogni donna diviene volta a volta per lui un’immagine materna finche gli sembra inottenibile e distante: allora egli vuole conquistarla; e nell’atto stesso della conquista il fantasma si dissolve tra le sue braccia: dramma veramente demoniaco, dal quale come è noto l’arte di moltissimi scrittori ha saputo trarre scene e motivi letterariamente eterni.
Dopo aver rapidamente menzionato, a titolo di esempio, alcune grandi creazioni letterarie del passato, alla cui comprensione la psicoanalisi ha già recato il proprio contributo, può essere interessante esaminare per esteso un libro di questi ultimi tempi, interessantissimo sia per, la tecnica insolita della stesura, sia per le vicende psicologiche della protagonista. Si tratta del breve romanzo « La signorina Elsa » di ARTHUR SCHNITZLER, che tanto successo ha avuto al suo apparire e riguardo al quale una « messa a fuoco » di ordine psicoanalitico non è stata ancora tentata.
Per chi non lo conoscesse, ecco in riassunto il contenuto del libro.
Anzitutto occorre premettere che la narrazione si svolge da cima a fondo sotto forma di monologo, e per lo più di monologo interiore, ossia di successione di pensieri della stessa signorina Elsa. Se vi sono delle frasi di altre persone, esse sono espresse in corsivo; quando parla la protagonista, le sue parole sono racchiuse tra virgolette, per distinguerle dai lunghi periodi semplicemente pensati e non detti.
Tale tecnica non è nuova (se ne trovano esempi in vari scrittori moderni, PROUST, LARBAUD, O’NEILL) ma non era mai stata adottata integralmente come in questo caso.
La signorina Elsa, dunque, è una ragazza austriaca ventenne, che si trova in villeggiatura a San Martino di Castrozza, in un grande albergo, ospite di una zia. I suoi genitori (il padre è un avvocato di grande talento, ma dalla vita sregolata) sono lontani, in preda a difficoltà finanziarie. Elsa riceve improvvisamente una lunga lettera dalla madre, dalla quale apprende che il padre ha speculato in borsa con i denari di un suo pupillo, e che se entro due giorni la somma di 30.000 Gulden non viene consegnata a un certo Dr. Fiala, il disonore e la rovina, con tutte le possibili conseguenze, sono inevitabili. Tutte le vie sono state tentate, mai invano, per mettere insieme questo denaro.
Resta solo una possibilità: che lei, Elsa, si rivolga a un conoscente di famiglia, il sig. Dorsday, ricco mercante di quadri, che si trova nello stesso albergo a San Martino, e lo preghi di intervenire in favore del padre. Questa lettera provoca in Elsa i sentimenti più disparati: umiliazione, dolore, desiderio di poter salvare il padre dalla prigione e forse dal suicidio, ira contro il padre che si è cacciato in una simile situazione, paura delle conseguenze di ciò che le si chiede di fare… Ma finalmente essa si decide, e parla a Dorsday nel senso che le è stato indicato. Questi, dopo alcune frasi di circostanza, si dichiara disposto a fare quanto gli vien chiesto, ma ad una condizione (oh! nulla di grave, egli dice): quella che Elsa gli si mostri ignuda per pochi minuti: niente altro. Elsa, per quanto la proposta la offenda, non sa lì per lì reagire, e Dorsday si allontana, in attesa che la ragazza prenda una decisione. Qui ha inizio la parte psicologicamente più interessante del romanzo: nell’animo di Elsa si svolge, coscientemente, un conflitto atroce, a cui essa non sa trovare alcuna soluzione.
E intanto le giunge un nuovo dispaccio della madre, ignara di tutto nel quale le vien fatta ogni premura, e le si comunica che la somma da chiedere è di 50.000, e non più di 30.000 Golden. La tensione si aggrava ancor più: come rettificare di fronte a Dorsday, e come farlosenza accedere al suo desiderio? A un certo punto la ragazza perde la testa: sì, Dorsday la vedrà, ma non sarà il solo, non potrà vantarsi di aver ottenuto come suo privilegio quanto voleva. Elsa si reca nel grande atrio dell’albergo, indossando il solo mantello, che lascia cadere davanti a Dorday, apparendo così in pari tempo nuda dinnanzi a tutti i presenti. Non appena ha fatto ciò, viene colta da una crisi nervosa, e sviene. Trasportata nella sua camera, ella sente, in uno stato di dormiveglia, i commenti al suo atto, e assiste tra l’altro – mentre la credono priva di sensi – alle espansioni amorose di un giovane che le è simpatico con una signora da lei detestata. Oppressa da terribili sentimenti di colpa, sola, abbandonata, in una situazione senza sbocco, Elsa approfitta di un momento in cui non la si osserva, e prende una dose mortale di Véronal. Le ultime pagine del romanzo, efficacissime, descrivono – sempre sotto forma di monologo interiore – il progressivo trapasso di Elsa dal collasso emozionale al distacco psichico dal mondo circostante, con cui poco a poco essa non riesce più a comunicare, sino all’obnubilamento finale della morte.
L’arte dello scrittore, la raffinatissima tecnica con la quale son presentate progressivamente le varie situazioni psicologiche in cui viene a trovarsi la protagonista, non mancano di avvincere chi legge creando quella intensa partecipazione alla vicenda che è condizione sine qua non per la riuscita della finzione letteraria. Una serie di abilissimi tocchi, difficilmente riassumibili, fanno accettare al lettore un comportamento che, se enunciato nei suoi termini essenziali, non può non apparire irrazionale: lo « immettono », per così dire, eludendo ii suo spirito critico, in una situazione psicologica – quella di Elsa del tutto eccezionale. Si potrebbe dire che SCHNITZLER riesce, in questo suo romanzo, a rendere partecipe il lettore di ciò che si svolge nei, piani profondi della psiche di Elsa, senza direttamente rivelarglieli: e in ciò consiste evidentemente uno dei pregi artistici fondamentali dell’opera. In quanto psicologi, noi dovremo invece tentar di chiarire e di portare alla coscienza quanto l’autore è riuscito tanto abilmente a farci sentire: solo allora le vicende psicologiche della signorina Elsa ci saranno chiaramente e completamente accessibili.
Nei lunghi monologhi di Elsa alcuni tratti colpiscono in modo particolare il lettore attento. Anzitutto si nota in lei un carattere accentuatamente narcisistico, con poche o punte capacità di amare. Le persone che la circondano o sono da lei francamente detestate, o godono tutt’al più di una sua vaga e superficiale simpatia « da villeggiatura ». I suoi non sono amori, ma « flirts » leggeri, senza alcuna partecipazione o impegno sentimentale. Elsa è un’egocentrica, e pur non risparmiando a se stessa le « punte » ironico-aggressive di cui è prodiga, si occupa innanzi tutto o quasi esclusivamente di sé. Neppure il desiderio di salvare il padre ci appare dettato da un vero e grande amor filiale, ma piuttosto da un « devi » imperioso di ordine esteriore, soprattutto sociale; ed anche su questo la ragazza trova modo, pur nel suo disorientamento, di ironizzare (« l’altera ragazza si vende per l’amato padre » – ella dice di sé a un certo momento). Per la madre non ha che disistima: la considera una povera di spirito, e non sa nascondere le reazioni ostili che le sue missive destano volta a volta in lei.
Questo narcisismo morale è sotteso – lo si comprende per brevi tocchi che occorre isolare onde afferrarne tutta la portata – da tendenze esibizionistiche assai più lontane dalla coscienza, ma non perciò meno interessanti e sintomatiche. Ecco alcuni dei pensieri saltuari attraverso i quali l’esibizionismo di Elsa si manifesta in modo inequivocabile: « sposo un Americano, e viviamo in Europa. Villa in riviera. Gradini di marmo che conducono in mare. Giaccio nuda sul marmo ».
Più oltre: « Non sono proprio bella, ma interessante sì. Avrei dovuto andare sulle scene ». Ancora, mentre si veste: «,Chiudere la finestra. Tiro le tendine? Superfluo. Non vi è nessuno sul monte, con un cannocchiale. Peccato! ». Mentre si mette le calze: «Il penultimo paio di calze di seta. Nessuno vedrà il piccolo strappo sotto il ginocchio. Proprio nessuno? Chissà. Ma non essere frivola, Elsa! ». E poi, come prima reazione alla proposta fattale da Dorsday: « Sarò diventata rossa oppure bianca? Ah, vorresti vedermi nuda? Molti lo vorrebbero. Io sono bella, quando sono nuda ». Più tardi ricorda un’intera avventura esibizionistica, dicendo a se stessa: « Forse non li avevate osservati, mentre stavate affacciata al balcone, a Gmunden, i due giovanotti in canoa, eh, gentile signorina Elsa? Essi non hanno potuto certo veder bene il mio viso, dal lago, ma che io fossi in camicia, questo l’hanno notato di sicuro. E questo mi ha fatto piacere. Ah, più che piacere. Ero come inebriata. Con ambe le mani mi sono accarezzate le anche, e mi sono comportata come se non avessi saputo che mi si vedeva. E la canoa non si è mossa da quel punto. Sì, così son io, un essere immondo, sì! ». Da queste brevi notazioni si comprende ancor meglio, mi sembra, quali siano i termini più profondi del conflitto in cui Elsa viene a trovarsi: la richiesta fattale da Dorsday, se da un lato offende il suo narcisismo, dall’altro promuove ed eccita violentemente le tendenze esibizionistiche, mantenute abitualmente a freno dalle inibizioni di un Super-Io non ben formato, e che ha tutte le instabilità e le severità eccessive del Super-Io nevrotico. Il conflitto profondo è ben caratterizzato dall’esibizione istintuale, e dalla forte reazione che esso provoca nella stessa Elsa (« sono un essere immondo »). Il piano più vero della lotta non è dunque quello del desiderio di salvare il padre, cui contrasta la ribellione morale, bensì quello dell’esibizionismo istintivo, alla cui soddisfazione si oppone il Super-Io. Comportandosi nel modo anzi descritto, Elsa soddisfa appieno due tendenze istintuali: 1) l’aggressività contro Dorsday, che vede esteso a tutti uno spettacolo che avrebbe voluto per, sé solo, e sul quale quindi Elsa riesce in certo qual modo a riaffermare la propria supremazia, rimediando all’offesa narcisistica; 2°) lo sfogo trionfale dell’esibizionismo. Elsa però non ha fatto i conti con la violenta reazione del Super-Io, che condanna il suo atto, la schiaccia sotto il peso di un immane sentimento di colpa, e canalizzando contro lei stessa tutte le energie aggressive – cui fa riscontro una totale carenza di amore compensatorio da parte dell’ambiente – la spinge da ultimo al suicidio. Posta in questi termini, la vicenda psicologica di Elsa appare pur sempre eccezionale, ma non più incomprensibile, in quanto la sua condotta si riporta a una situazione di conflitto quasi totalmente inconscia, di cui è l’esponente logico e conseguenziale. Naturalmente sullo stesso racconto di SCHNITZLER or ora esaminato si potrebbero, volendo, muovere molte altre osservazioni particolari, a conferma della nostra principale interpretazione. Non ci è stato comunque difficile mostrare, anche a proposito di un’opera contemporanea, ciò che abbiamo indicato riferendoci ad esempi « classici »: che cioè la psicoanalisi è in grado di contribuire potentemente a una comprensione più chiara e circostanziata di caratteri ed eventi presentatici sub specie artis, e quindi di recare un aiuto non trascurabile all’esegesi delle più varie creazioni della letteratura d’ogni tempo e d’ogni paese.
EMILIO SERVADIO

RIASSUNTO: L’A. passa in rassegna alcune grandi opere letterarie antiche e moderne, mettendo in luce il contributo che la psicoanalisi ha recato e può recare ad una loro più intima comprensione. Le figure di Edipo, Amleto, Medea, Don Giovanni, l’opera di Edgar Poe vengono successivamente considerate, e l’A. ne addita sommariamente l’interpretazione analitica. Accennando poscia ai caratteri ed ai limiti reciproci dell’intuizione creativa artistica e dell’analisi psicologica dell’opera d’arte, l’A. esamina, da ultimo, il romanzo « La signorina Elsa » di SCHNITZLER, ne mette in evidenza gli elementi psicologici principali, e mostra come essi si comprendano appieno solo riconoscendo i moventi inconsci del comportamento della protagonista, moventi che il romanziere ha intuito ma non espresso.

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