Psicoanalisi e morale
Guido Calogero ed· Emilio Servadio
Le Conferenze dell’Associazione Culturale Italiana – Fasc. I – (1959 1960)

Emilio Servadio

Per vedere in che senso il problema morale possa porsi in relazione alla teoria e alla pratica della psicoanalisi, occorrerà dare una certa idea di che cosa voglia e di come proceda l’intervento psicoanalitico. Così vedremo, se ci sarà possibile, come e perchè si sia fatta particolarmente sentire, nei riguardi della psicoanalisi, una «questione morale».
La psicoanalisi è sorta come tecnica volta a rendere cosciente ciò che era inconscio e inaccessibile, e si trovò che questo procedimento aveva un valore terapeutico. Mi affretto a dire che questo è un modo molto semplicistico di descrivere la tecnica psicoanalitica, la quale, in circa mezzo secolo di vita, si è andata notevolmente evolvendo. Tuttavia il principio, in base al quale occorre rendere coscienti vari contenuti psichici inconsci, vige tutt’oggi. Tale procedimento è dunque contrario a quello repressivo, a quello per cui si dice all’uomo preoccupato, o al nevrotico, di accantonare i suoi guai, di pensare ad altro, o di fare «sforzi di volontà». Perciò l’intervento psicoanalitico fu anche definito liberatorio, «catartico», ecc. Fu accertato ben presto che molti contenuti profondi messi in luce mediante la tecnica psicoanalitica erano idee, impulsi e aspirazioni in netto contrasto con quello che la società civile, il buon costume, e magari il soggetto stesso del trattamento analitico ritenevano giusto e desiderabile erano quindi, in un certo senso, «immorali».
A questo punto sorsero, già molto tempo addietro, gravi obiezioni di tipo moralistico alla psicoanalisi. Le si rimproverò di scoprire umane brutture e nefandezze che sarebbe stato meglio ignorare o addirittura reprimere; si sospettò che la psicoanalisi potesse indurre i singoli soggetti a tradurre in atto certe loro tendenze amorali e asociali, facendoli diventare individui poco responsabili e quindi pericolosi…
Erano giustificate queste accuse? Vediamo.
Nell’opera psicoanalitica debbono essere indubbiamente indebolite e aggirate certe barriere che noi chiamammo «resistenze psichiche», le quali impediscono al soggetto di prendere nozione dei propri contenuti profondi. È anche necessario, in quest’opera, notevolmente rivedere taluni principi o criteri in base ai quali l’individuo, con risultati spesso disastrosi, aveva cercato di tenere a bada certe sue tendenze. In questo senso, quindi, si deve senz’altro ammettere che la psicoanalisi prende posizione contro un certo tipo di freni e di comandi interni – con il loro tipico accompagnamento, la colpevolezza – clic spesso vengono considerati come morali. Ma di quale morale in realtà si tratta?
La psicoanalisi ha scoperto che alla crudezza, alla primitività e all’antisocialità di certe tendenze profonde, di certe oscure fantasie umane, si opponevano principi e istanze psichiche reprimenti e frenanti, che avevano press’a poco le stesse caratteristiche di arcaicità e di illogicità: istanze bizzarre e crudeli, molto più simili a un’autorità ciecamente tirannica, come quella dei magistrati nel famoso a Processo » di Kafka, che non a un giudice equanime ed illuminato. Queste istanze, che nel gergo psicoanalitico si sussumono sotto l’appellativo di Super-Io, si formano principalmente in una fase molto primitiva di evoluzione della personalità umana; tendono perciò a prevalere in questa formazione elementi di irrealtà, di assurdità e di crudeltà che è dovere della psicoanalisi criticare e combattere. Bisogna avere conosciuto da vicino certi nevrotici gravi, per esempio certi nevrotici ossessivi o certi depressi, per vedere quale sia quella che essi ritengono una «buona condotta morale». Tale condotta è fatta in gran parte di inibizioni assurde, di divieti, di coartazioni della libertà : si riferisce cioè ad un sistema di valori che io non credo si possa in alcun modo chiamare morale. Sempre nel nevrotico, ma sovente anche nella persona ritenuta normale, lo psicoanalista scorge spesso problemi e comportamenti, cosiddetti morali, che non può non giudicare in modo piuttosto critico. Anche l’uomo normale è soggetto a una quantità di piccoli
o grossi pregiudizi nella sua condotta morale, riconducibili a principi irrazionali ed inconsci; e certamente la psicoanalisi non intende fare opera di sostegno rispetto a questi elementi coartanti della personalità, ma piuttosto si sforza di attenuarli e di ridurli. In sostanza, quindi, la psicoanalisi tende a liberare l’individuo da certi fardelli interiori ingiustificati, irrazionali e troppo pesanti; tende a ridurre al minimo la colpevolezza nevrotica, e quella che si potrebbe chiamare una patologica «disponibilità di ansia». Possiamo dire che ciò sia male? Possiamo dire che ciò sia contrario alla morale in quanto questa, invece e magari, esigerebbe l’accentuazione del senso dell’aver fallato, del rimorso, della colpevolezza?
Questo è l’interrogativo che noi psicoanalisti vorremmo rivolgere ai filosofi, e che io rivolgo ora all’amico Prof. Calogero, a cui cedo la parola.

Calogero

Il modo in cui il problema è stato posto dall’amico Servadio esclude che si possa dare semplicemente una risposta negativa. Una simile risposta si concreterebbe nel ragionamento:
– La psicanalisi tende ad attenuare il senso di colpa; il senso di colpa è essenziale all’esperienza morale; dunque la psicanalisi opera in senso contrario alla moralità -. Ma in tal caso noi presupporremmo un concetto della moralità molto limitato, molto restrittivo.
Noi concepiremmo come morale essenzialmente ciò che fa sentire il senso del peccato: vedremmo cioè la morale piuttosto come una morale di condanna, come una morale giudiziaria, che come una morale di comprensione, una morale di carità. Accentuando questa prospettiva, potremmo allora dire che qualunque cosa capace di accentuare il senso di colpa avrebbe un valore etico. L’ideale consisterebbe nel far sentire il più possibile il senso di colpa. Ora, basta porre la questione in questi termini per accorgersi che una concezione morale di tal genere sarebbe unilaterale e insoddisfacente. Di conseguenza, mi pare legittima la protesta dello psicanalista contro il moralista il quale lo condannasse solo perchè attenua il senso di colpa nei suoi pazienti. In questo senso, direi, non c’è una legittima critica morale da far valere.
Il vero problema morale, che qui si presenta, è un altro. Anche in questo caso lo psicanalista opera una scelta fra quei sentimenti di colpa che ritiene meritevoli di essere eliminati, e gli altri sentimenti di colpa, rispetto a cui può invece pensare che convenga lasciarli attivi nell’animo del paziente, o addirittura consigliarlo a costituirsi ai carabinieri piuttosto che ricorrere alle sue cure. E anche escludendo questi casi estremi, se parliamo della ingiustificata severità del Super-io, come ha ben detto Servadio, implichiamo che possa esserci anche una severità non ingiustificata. In altri termini : il fatto che ci siano delle remore, dei giudizi, dei controlli, meritevoli di critica e di eliminazione, non esclude che ce ne siano altri, invece, che debbono essere mantenuti.
Adoperando una terminologia consueta nelle discussioni psicanalitiche, si tratta di distinguere fra tabù e regole di condotta. Quando noi diciamo che una regola è un tabù, svalutiamo questa regola: cioè diciamo che essa è accettata, ma che in fondo non dovrebbe esserlo. Diciamo che è accettata per consuetudine, per conformismo, cioè per mancanza di spirito critico, che ci augureremmo intervenisse in modo da eliminarla. È questo lo spirito di ogni identificazione di tabù, e di ogni corrispondente polemica contro i tabù. Ma già questa distinzione implica che combattere contro i tabù non significa combattere contro tutte le regole: anzi l’individuo in tanto si deve liberare dai tabù in quanto deve sapere scegliere le regole legittime, le regole autentiche del comportamento. Questo mi pare sia il problema morale che si pone anche alla psicanalisi.
E qui, se io dovessi esprimere la mia impressione, direi che in generale gli psicanalisti e gli psicologi (sia pure con molte coraggiose eccezioni, fra cui quella dello stesso amico Servadio) manifestano una certa esitazione nello stabilire i canoni etici, i principi morali, presupposti validi anche dal loro punto di vista. Se lo psicanalista è d’accordo sul punto che deve liberare gli uomini dai tabù ma non deve liberarli dalle regole valide, è chiaro che deve altresì presupporre un criterio di distinzione fra tabù e regole valide. Un criterio di distinzione di questo genere è ciò che possiamo chiamare il criterio etico, il criterio fondamentale del comportamento: esso è, insomma, la scelta morale di fondo, in funzione della quale si possono poi compiere tutte le altre scelte più specifiche.
L’esitazione che mi sembra di constatare spesso negli psicanalisti a questo proposito mi pare anche connessa (sentiremo poi che cosa ce ne dirà Servadio) con un atteggiamento mentale comune non soltanto a loro, perchè diffuso nella maggior parte di coloro che si occupano di scienza. È l’atteggiamento che chiamerei della indipendenza della scienza dai canoni etici. Accade spesso che lo scienziato enunci il naturale aspetto tecnico di ogni sua ricerca nei modo che segue: – lo, come scienziato, non vi dico che cosa è bene e che cosa è male : vi dico soltanto che cosa potete fare se volete ottenere un certo risultato. Il metodo per ottenerlo è questo; se volete guarire, il metodo per guarire è questo. Ma quanto al fatto, poi, che vi convenga piuttosto di guarire o di non guarire, e quindi di adottare di non adottare questo metodo terapeutico, tale scelta di fondo no riguarda lo scienziato. Riguarda la vostra coscienza : e per aiuto potrete rivolgervi, se mai, al vostro consigliere spirituale, al vostro sacerdote, al vostro teorico della moralità. Ma non è problema che riguardi lo scienziato.
Ora, questo atteggiamento è solo parzialmente legittimo : e tanto meno lo è quanto più si mescola di logica, di gnoseologia, di teoria della verità, cioè quanto più si presenta come una distinzione fra quel regno della verità, che sarebbe soltanto il regno dei fatti, e quel regno dei valori, che sarebbe invece sempre un regno di aspirazioni di scelte, di decisioni, perciò non mai giustificabili con rigore scientifico. È evidente infatti (anche senza approfondire troppo questo problema) che nemmeno lo scienziato può scegliere che cosa è importante e che cosa non è importante, in tutto quello che fa, senza aver un criterio di valore. E questa distinzione, che è fondamentale in tutto quello che noi facciamo, non si riduce a quella del vero dal falso. Anzi, quest’ultima distinzione è essa stessa una distinzione di valore preferiamo il vero al falso, perchè ci delude meno, anzi sogliamo chiamare vero quello che in questo senso ci delude meno. D’altronde, nell’infinito mare di tutte le cose che sono vere a questo mondo, noi ci orientiamo solo trascegliendo l’importante dal non importante, il serio dal futile, il valido dal meno valido. La storia la facciamo ricordando ciò che ci interessa, non già ricordando semplicemente ciò che è accaduto perchè le cose accadute sono infinite, e noi ne scegliamo un piccolo numero in funzione della loro importanza, cioè in base a un criterio di valutazione che non è semplicemente quello del vero e del falso, ma ha un più profondo valore discriminante, e quindi presuppone in ultima analisi il criterio del bene e del male.
Si può bensì osservare che talvolta certi ricercatori ricorrono all’astuzia di presentare semplicemente come accertamento scientifico ciò che in realtà è retto da un preciso criterio di scelta pratica. E questo vale tanto più quanto più l’argomento della ricerca si avvicina alle sfere delle nostre più delicate scelte morali. Si comprende quindi come possa valere particolarmente anche per la psicanalisi, che spesso investe i più gelosi segreti dell’umano decidere. Si pensi, per esempio, per citare un caso di analogia, al modo in cui è stato scientificamente presentato il rapporto Kinsey sulla vita sessuale degli uomini e delle donne degli Stati Uniti. Esso è stato offerto al pubblico come un rapporto meramente obiettivo, meramente di fatto, insomma come una pura constatazione di uno stato di cose, proprio perchè il tema in questione era talmente spinoso, talmente controverso, che se questa ricerca fosse apparsa diretta da una certa intenzione etica, innovatrice, riformatrice, ciò avrebbe reso più difficile il compito, e meno persuasivo il discorso degli stessi ricercatori. Tuttavia non c’è alcun dubbio che quella ricerca fu fatta in funzione di un interesse, cioè perché si intuiva che il comportamento sessuale degli uomini e delle donne era diverso da quello che si credeva che fosse, e che il riconoscere tale diversità era utile per combattere molti tabù riferentisi a quel comportamento. In simili casi, il mascherarsi dietro la pura scientificità è una specie di strumento al fine di operare in condizioni di minor sfavore. Si può quindi anche pensare – aggiungo subito – che una scienza e una tecnica come la psicanalisi, che specialmente ai suoi inizi ha dovuto combattere contro una quantità di ostacoli e di opposizioni, abbia fatto bene a nascondersi per molto tempo dietro la maschera della pura scientificità, proibendosi ogni intervento diretto a modificare quelle regole del comportamento umano, che essa pur sentiva come responsabili della genesi di certe nevrosi. Però mi sembra, appunto, che, se questo era giustificato allora, non sia più giustificato oggi. Oggi noi dobbiamo chiedere anche agli psicanalisti più precise dichiarazioni circa gli stessi criteri etici che essi presuppongono come fondamento della loro attività, e che si augurerebbero fossero presupposti da tutti.

Servadio

Vorrei anzitutto indicare all’amico Calogero perché l’analista non dà all’analizzando direttive, e tanto meno precetti, di ordine morale.
In primo luogo, se l’analista così facesse, si metterebbe inevitabilmente, anche senza volerlo, dalla parte delle istanze reprimenti. Dobbiamo ricordare che molti «devi» o «non devi», «puoi» o «non puoi», che agiscono interiormente nel nostro analizzando erano, in origine, esterni, e furono pronunziati dalle «autorità» della infanzia. I rappresentanti interiorizzati di tali istanze hanno poi agito nel senso del conflitto psichico e della nevrosi. È vero che molte volte, le immagini interne non corrispondono a quella che era la realtà obiettiva, e sono state deformate e peggiorate dall’elaborazione che il soggetto ne ha fatto. Tuttavia la « realtà psichica – la sola che conti – è quella che abbiamo indicata. Perciò l’analista il quale cominciasse a pronunciare anche lui dei «devi» o «non devi», dei «puoi » e dei «non puoi», si porrebbe senz’altro, per l’apparato psichico del paziente, nella stessa linea di quelle autorità (vere o presunte), che invece deve in qualche modo scalzare. Ciò non significa che l’analisi debba demolire tutto quello che al soggetto è stato detto o impartito nell’infanzia, bensì che occorre in ogni caso ridimensionare e ridurre il potere patogeno delle istanze reprimenti e rimuoventi. L’analista non può correre il rischio che l’analizzando, rivoltosi a lui per avere sollievo ed aiuto, e per uscire dai suoi guai, trovi invece nell’analista stesso un alleato delle forze che l’hanno portato verso la nevrosi! Ciò sarebbe, ovviamente, in aperta contraddizione con le premesse del lavoro analitico.
Secondo punto: non è affatto detto che il sistema di valori morali, o di regole di condotta, a cui aderisce personalmente l’analista, abbia carattere di norma universale. Io ho fatto in proposito alcune esperienze alquanto singolari per un analista, perchè ho esercitato la mia professione, per lunghi anni, in un’area di cultura totalmente diversa da quella europea, e precisamente in India. In quel vasto Paese mi sono trovato di fronte a norme, tradizioni e costumi di un genere molto diverso dal mio, per cui certe cose che avrei potuto eventualmente far presenti ad un europeo, o a un italiano, non avrei potuto in alcun modo far valere di fronte ad un musulmano, a un indù o a un parsì. Se un soggetto italiano in analisi tenesse la moglie chiusa in casa, e non la facesse uscire se non velata dalla testa ai piedi, io potrei trovare questo comportamento non soltanto improprio e nevrotico, ma anche crudele e immorale. Però questo discorso non si potrebbe applicare ad un musulmano di Lahore, che tiene la moglie nel purdah, e che la fa uscire sotto una cappa che la ricopre come una capanna di stoffa! Ciò, in quelle coordinate culturali, è «normale» e «morale».
Terzo punto: i compiti del soggetto in analisi sono in verità molto pesanti e difficili, per cui più volte, a persone che non si sentono il coraggio e l’abnegazione di sottoporsi a un’analisi regolare, io la sconsiglierei anziché consigliarla. I compiti in questione consistono nell’aprire gli occhi sul proprio mondo interiore, operare un ridimensionamento in profondità di molti valori, rinunziare a una quantità di fantasie irrealizzabili e a desideri caduti in prescrizione, in sostanza risolvere, con laboriosa costanza e con notevole pena, i propri conflitti. A questo grave fardello potrebbe l’analista aggiungere particolari schemi cui adeguarsi, particolari ideali morali da raggiungere? Io non lo penso, poiché ciò aumenterebbe le già grandi difficoltà del paziente, e contribuirebbe a farlo sentire ancora più debole, incerto e inadeguato di quanto già esso sia. Dirò di più: anche nel caso in cui il soggetto, per motivi patologici, si comportasse all’inizio in modi nettamente disformi dai criteri morali più universalmente riconosciuti, l’analista secondo me non dovrebbe sferrare «attacchi frontali» sul piano morale, ma dovrebbe soprattutto ed in primo luogo accertarsi del grado in cui una parte della personalità del soggetto (quella che noi chiamiamo l’Io) riesce, come noi diciamo, a «distanziare» un certo tipo di comportamento. Occorre cioè vedere fino a che punto questo lo può esercitare un’opera critica rispetto a un determinato modo – diciamo pure a immorale – di comportarsi, e se tale premessa esiste, l’analista ha fondate speranze di poter poco a poco ridurre, modificare e addirittura annullare gli anzidetti comportamenti asociali e amorali. Già da ora si vede, perciò, come sovente principi etici ed esigenze analitiche possano coincidere. Tuttavia è chiaro che se noi talvolta respingiamo come soggetto di analisi l’individuo il quale compie azioni immorali e se ne compiace, non facciamo questo per ragioni morali lo respingiamo per ragioni tecniche, per ragioni scientifiche, perché riteniamo che un individuo con un lo strutturato in quel modo non sia adatto per la psicoanalisi, non possa adeguarsi ad una delle premesse essenziali di un trattamento psicoanalitico. Quindi in sostanza noi non possiamo schierarci tra coloro che esortano, che rampognano e che predicano. Tutti sappiamo che le prediche anche autorevoli non sono in grado di guarire, per esempio, certe deviazioni sessuali o certe tossicomanie, che spesso portano il soggetto a comportarsi in modo decisamente immorale. La via è un’altra : è quella del «distanziamento» dell’Io del soggetto rispetto agli impulsi amorali e asociali, dopodichè noi andiamo alla ricerca non già dei valori morali da sostituire a quelli esistenti, bensì dei motivi profondi che hanno portato il soggetto a comportarsi in quel determinato modo, trascinandolo spesso ad azioni che non è in grado di impedirsi.
I predicozzi morali, sovente il soggetto se li è fatti infinite volte da sé, ed è perfettamente inutile ricascare in quell’errore. La via per risanarlo non è quella della morale corrente, è quella della tecnica analitica. In sostanza io ritengo che dev’essere il soggetto stesso a determinare poco per volta le sue nuove coordinate morali, quando con l’aiuto dell’analista sia meglio preparato a farlo; in questo senso noi potremmo paragonare l’analisi al chiarimento dato ad un giocatore di carte, il quale ignorasse un certo numero delle carte del proprio giuoco. L’analista gli addita le carte che gli mancano, e lo mette in grado di giocare in modo molto migliore di prima; però non può dettargli le regole del giuoco o imporgli un tipo di partita piuttosto che un altro. Tuttavia, e lo vedremo meglio fra qualche momento, io ritengo (per continuare in questo paragone) che sia dovere dell’analista far qualche volta presente, se necessario, che tutto sommato, quando si gioca a carte è meglio non barare…

Calogero

Anche qui direi che, posta la questione in questi termini, è difficile non essere d’accordo con Servadio. È difficile prospettare il rapporto medico-malato altrimenti che così.
Ma il medico ha rapporto soltanto col malato? Lo psicanalista si deve preoccupare soltanto del suo paziente? Da questo punto di vista credo che si potrebbero distinguere i medici in due classi: coloro che si augurerebbero che tutti fossero malati, e coloro che si augurerebbero di essere inutili. Non c’è dubbio che Servadio non appartiene alla prima specie: egli non è un professionista il quale tema di restare senza clienti… Ora, fra un medico il quale si auguri di essere inutile, e un medico il quale si auguri che tutti siano malati, credo che preferiremmo tutti il medico il quale si augura di essere inutile: così come preferiremmo giudici che sperassero di non aver mai cause da giudicare, a giudici felici di aver sempre più gente da condannare.
Se quindi è ovvio che lo psicanalista, di fronte al suo paziente, deve esercitare tutte quelle cautele che ha ben sottolineate Servadio, come si dovrà egli nello stesso tempo comportare rispetto a coloro che non sono malati, e che si augura non si ammalino? Oltre al problema della terapia, c’è quello della prevenzione: oltre alla terapia mentale, c’è l’igiene mentale. Si pone cioè il problema di un orientamento pratico ed etico degli individui, tale che essi non abbiano poi bisogno dello psicanalista : e lo psicanalista, che conosce la malattia, è da questo punto di vista ben qualificato per indicare anche quale può essere la via della salute. Ma allora, in vista di una simile indicazione, cadono quasi tutte le preoccupazioni che hanno luogo quando il discorso è diretto anzitutto al paziente. Che a quest’ultimo io debba evitare non solo di fare inutili predicozzi, o di ribadire precetti che aggravino le sue inibizioni, ma altresì di porre problemi i quali siano al di là delle sue capacità di soluzione, mi par chiarissimo. Ma questo vale, ripeto, soltanto in questa situazione specificamente terapeutica.
Quando invece lo psicanalista si trova di fronte al pubblico in generale, sarebbe immodesto se pretendesse che esso fosse più malato di lui. In questo caso, siamo di fronte all’universale dobbiamo allora preoccuparci del comune criterio di direzione dell’attività; e dunque sorge il problema di non continuare a seguire regole sbagliate. Quali regole sono tali che provocano complessi psicanalitici, i quali poi esigono di essere curati? Quali aspetti dell’etica corrente si sono dimostrati piuttosto atti a provocare guai, e quali suoi aspetti, invece, devono essere sottolineati, perché hanno una funzione più positiva e salutare? Questa scelta si ripresenta e si ripresenta, direi, in una situazione di assai maggiore libertà mentale, perchè non c’è più la preoccupazione di creare nuove difficoltà ad un paziente.
Si tratterà, se mai, di mettere in difficoltà l’opinione pubblica, cioè di sollecitarla a riflettere su problemi nuovi. Ma questa è una ben diversa situazione di responsabilità. Se io debbo dire qualche cosa intrinsecamente non conformistica, cioè implicante una modificazione di abitudini mentali acquisite, io dovrò pormi tanto maggiormente il problema dell’opportunità del farlo, quanto più debole si presenterà la situazione del mio interlocutore. Se è un individuo privo di forte personalità, se è un individuo, poniamo, che ha già impegnato tutta quanta la sua vita in un certo modo di comportamento, e quindi è poco attendibile possa modificarlo da un momento all’altro, io sarò molto prudente nel cercar di modificare i suoi criteri di valutazione. Ma se mi trovo di fronte a un uditorio, se parlo, come questa sera, a un pubblico, se devo scrivere un libro, queste remore diventano infinitamente minori e anzi mancherei senz’altro di rispetto al mio pubblico se lo considerassi come un reale o potenziale paziente psicanalitico. Il mio pubblico non posso se non considerarlo come sano, giacché mi esporrei immediatamente ad un’accusa di superbia se pretendessi di essere più sano io della media di tutti i miei ascoltatori. Al pubblico debbo quindi esporre con franca chiarezza quello che penso. Quella esitazione a chiarire i propri intenti di riforma di certe regole di comportamento, in funzione di un riesame dei criteri etici di fondo, che si constata in alcuni psicanalisti, è dunque giustificata, e lo ha ben chiarito Servadio, quando si tratta del rapporto tra lo psicanalista e il paziente, ma è meno giustificata quando si tratta del rapporto fra lo psicanalista e il pubblico.
E a questo proposito vorrei aggiungere un’ultima osservazione.
Supponiamo che lo psicanalista si trovi di fronte a un’autorità, quale che essa sia (immaginiamo che sia un’autorità politica, un ministero della cultura, oppure un’autorità religiosa o spirituale o culturale, che comunque eserciti un influsso) immaginiamo che questa autorità condanni la psicanalisi, affermando che essa è cosa cattiva e che servirsi dei metodi psicanalitici è moralmente erroneo, sia per curare sia per farsi curare. Che cosa fa lo psicanalista? Si comporta come se questa autorità fosse un suo paziente? In un certo senso, lo psicanalista potrà anche pensarlo. Ma, direi, questo è proprio il caso in cui non può presumerlo, e in cui, comunque, il presumerlo non gli giova, perchè non può mettersi nella situazione di riserbo e segreto professionale proprio del medico, quando invece quel che si richiede è la coraggiosa franchezza del cittadino. In questo caso egli deve dunque entrare apertamente in polemica.
E dirà, per esempio, che qui non ci sono storie io ho il diritto di esporre le mie teorie psicanalitiche, e di invitare altre persone a valersene, esattamente come il mio interlocutore, avversario della psicanalisi, ha il diritto di opinare e di consigliare il contrario. Questa regola vale per tutti su questo non si discute, a prescindere da ogni opinione pro o contro la psicanalisi. Abbiamo dunque qui una regola morale, che è indipendente da qualunque specifica situazione dell’individuo da psicanalizzare o da non psicanalizzare. Abbiamo un criterio etico, che è il principio della libertà di discussione il principio della libertà di dare e ricevere consigli, subordinato alla sola condizione che tale libertà sia assicurata a tutti pariteticamente. Ora, una simile presa di posizione è appunto un esempio di quanto chiamerei la necessaria assunzione di responsabilità etico-educativa, che anche uno psicanalista deve prima o poi compiere in sede pubblica, senza preoccuparsi in tal caso delle possibili reazioni dei pazienti. Tutto ciò non è in contraddizione con quanto ha detto Servadio, ma implica un ampliamento della prospettiva, che è necessario se si vuoi vedere nella giusta luce ii rapporto tra problema etico e problema tecnico-terapeutico.

Servadio

In linea di massima, mi pare di non aver molto da obiettare a ciò che ha detto Calogero, e trovo che la stessa psicoanalisi finisce col prendere posizione rispetto agli anzidetti problemi di fondo. ‘Secondo me è vano il tentativo di alcuni psicoanalisti, che vorrebbero adottare la neutralità del fisico o del chimico di fronte a reazioni della materia. Certe esigenze di ordine morale si ripresentano secondo me inevitabilmente anche quando mediante certe formule si vorrebbe cercare di evitarle e di mantenersi «al di sopra della mischia». L’amico Calogero ha fatto l’esempio di un’autorità che vietasse la psicoanalisi. Io vorrei farne qualche altro. £ stato detto da alcuni psicoanalisti che il criterio a impersonale da seguire è quello di far sì che l’individuo raggiunga una buona armonia con se stesso, indipendentemente da criteri morali esteriori. Ma che cosa vuoi dire essere in armonia con se stessi? Se ad esempio un offensore sessuale, un corruttore di minorenni, si dovesse armonizzare con se stesso nel senso di essere pienamente soddisfatto del proprio operato, l’analista dovrebbe essere pago egli stesso di questo risultato? Se uno scassinatore di casseforti fosse a un certo punto libero da qualsiasi sentimento di colpevolezza, e ritenesse che fare lo scassinatore è il miglior modo in cui può appagarsi e armonizzarsi la sua personalità, l’analista dovrebbe dargli forse la sua approvazione? Io non credo che alcun analista, fautore del principio dell’«armonia con se stesso», arriverebbe a tanto!…
Consideriamo un altro criterio che secondo alcuni analisti dovrebbe e potrebbe essere applicato al di fuori di ogni considerazione etica, quello dell’«adattamento». Supponiamo che un analista avesse avuto come cliente un individuo «disadattato» rispetto a un certo tipo di prassi criminale nazista. Si sarebbe forse dovuto dirgli che lo scopo dell’analisi era modificare il suo disadattamento? che la sua guarigione doveva coincidere con l’accettazione dei principi della società in cui si trova a vivere? Se rivolgiamo a questo punto uno sguardo al passato, troviamo che molti progressi dell’umanità in senso spirituale, politico o filosofico, si debbono ad alcune personalità che dal punto di vista della condotta e del costume correnti erano, diciamolo pure, dei grandi «disadattati» – nel senso che le loro tendenze profonde, il loro modo di vedere la vita e la società, erano completamente diversi da quelli del di coloro che li circondavano! Anche il criterio dell’adattamento, dell’adjustment, seguito da una certa scuola di psicoanalisi americana, è dunque fallace, e non si può pedissequamente seguirlo.
Tuttavia sta di fatto che dal punto di vista psicoanalitico il vero comportamento morale, il vero progresso morale vengono praticamente a coincidere con la via della salute psichica e con il progresso psichico, se per progresso noi intendiamo l’abbandono di posizioni vecchie e inadatte. Dirò quali sono secondo me i punti chiave di questo progresso, quello che intende e che fa la psicoanalisi in questo senso. Il primo punto è quello per cui si procede, nell’evoluzione psichica normale, e nelle a evoluzioni abbreviate dell’analisi, dal l’egocentrismo a una maggiore socialità. Tanto nel bambino noi ancora sviluppato, quanto nel nevrotico, noi vediamo una intensa preoccupazione di se stessi, troviamo tendenze megalomaniche consci ed inconscie. La sessualità infantile, le relazioni interpersonali infantili, hanno carattere egocentrico, e lo stesso si può dire di certi comportamenti dell’adulto nevrotico. Il progresso psichico coincide, i entrambi i casi, nella migliore considerazione dell’altro ma mi par che in questo senso militi anche ciò che s’intende per progresso morale.
Un secondo punto è il procedere dall’inconscio alla coscienzE È questo, come si sa, uno dei fondamenti della psicoanalisi. Nell’inconscio vigono principi e leggi, se tali si possono chiamare, molto differenti e molto primitivi rispetto a quelli della coscienza; vi albe: gano impulsi irrazionali, vi fluttuano cariche psichiche che verso livelli di coscienza divengono fisse e stabili. Ogni «presa di coscienza» è perciò progressiva. Ciò non significa che l’aspirazione deli psicoanalisi sia quella di svalutare l’inconscio e di risolvere tutto i termini di ragione e di coscienza. Noi pensiamo piuttosto che il pii cesso psichico e la salute psichica consistano in quello che viene chiamato un «buon contatto » col proprio inconscio, cioè nella possibilità di un dialogo, di una dialettica, di una complementarità fra coscienza ed inconscio.
Terzo punto. Da quello che si chiama in gergo psicoanalitico psichiatrico l’«autismo» occorre procedere verso il a realismo tratta di superare per quanto possibile certi stadi magici e non realistici del pensiero, per cui il mondo esterno viene più o meno popolato dalle proiezioni del nostro particolare mondo interiore, e di ave pertanto una considerazione sempre più oggettiva e mutuabile del realtà. I due estremi in questo senso sarebbero il mondo menta dello psicotico, che è un mondo esclusivamente autistico, di tij unico, non generalizzabile, non socializzabile, e il mondo della persona psicologicamente sana, che risponde a una considerazione più obbiettiva e socializzabile della realtà.
Quarto punto: dalla inibizione nevrotica a quella che potremmo chiamare la spontanea bontà. Molte persone si comportano bene, effettuano buone azioni, in base a una loro morale fatta soprattutto di precisi divieti o di imperiosi comandi, di solito interiori ed inconsci. Ci sono tipi di personalità, per esempio le personalità che noi chiamiamo ossessive o coatte, che impressionano per la loro straordinaria scrupolosità, cortesia e finezza di comportamento. Orbene, tutto ciò è dovuto a fortissime inibizioni e a blocchi interni, che poi magari da un momento all’altro vengono soverchiati, dando luogo a comportamenti altamente amorali e asociali. Si ha quindi l’impressione che siano proprio le inibizioni a coartare spesso molto di intrinsecamente buono nella personalità umana, e che una maggiore spontaneità possa coincidere effettivamente con una bontà più chiara ed autentica.
Un quinto punto potrebb’essere quello della riduzione dell’aggressività. Gli impulsi aggressivi sono altrettanto primigeni nella personalità umana quanto gli impulsi sessuali. Essi possono essere dirompenti e decisamente distruttivi, così come possono essere legati dagli impulsi dell’Eros e rivolti a opere costruttive. Molte vicende individuali e collettive mostrano sino a qual punto l’uomo possa essere aggressivo, ma mostrano anche quanta aggressività possa essere mobilitata per scopi superiori, possa essere suscettibile di attenuazioni e di sublimazioni, il che porta ovviamente, su scala sociale, a rapporti interpersonali migliori e di maggior tolleranza reciproca, ossia più schiettamente morali.
Un altro punto, su cui vorrei particolarmente insistere, è il passaggio dalla paura alla sicurezza. Questo è un problema che riguarda molto da vicino il mondo moderno, che è permeato di angoscia. Quella dei nostri tempi, tuttavia, e contrariamente a quanto generalmente si crede, è molto più angoscia di fronte alle incognite interiori dell’uomo, che non alla bomba atomica, o alle armi «incredibili» di cui ogni tanto si parla. Si tratta della intensificazione in molti individui, e in modo particolare nei nevrotici, di certi elementi ansiogeni di origine infantile, i quali rimangono tali fino a tanto che le situazioni che li causano non sono sufficientemente esplicitate e portate alla coscienza. L’attenuazione di questi meccanismi, e il ridimensionamento di queste istanze, porta ad una maggiore sicurezza rispetto al mondo esterno e a noi stessi. Noi sappiamo che dall’individuo impaurito, dall’individuo ansioso, possiamo aspettarci veramente di tutto, possiamo aspettarci anche comportamenti estremamente lesivi dell’integrità e della pace altrui. Tutto questo viene sensibilmente ridotto dall’opera psicoanalitica, e non soltanto da quella rivolta al singolo paziente, ma anche da quello che la psicoanalisi detta ed insegna su una scala più vasta, su scala sociale, come indicava molto giustamente e opportunamente Calogero. In parallelo con questa linea di progresso è il passaggio dall’eteronomia all’autonomia, cioè dalla dipendenza ad una maggiore indipendenza. Il bambino non è autonomo, dipende fisicamente, moralmente e psicologicamente dagli adulti; l’individuo nevrotico adulto è dipendente dai suoi complessi, dai suoi conflitti non risolti, per cui la sua autnomia è illusoria. Il nevrotico ossessivo, ad esempio, è largamente eteronomo rispetto a una serie di imposizioni e di divieti interiori, ai dubbi coatti, ai cerimoniali che debbano presiedere agli atti più semplici della sua vita. La sua libertà, la sua indipendenza, sono poco più che parole… La analisi vuole ottenere una maggiore autonomia della personalità umana sia nel nevrotico che nel normale, sia nel singolo che in gruppi e aggregati sociali sempre più vasti.
Ed infine, il giudizio. Molte persone, e non soltanto i nevrotici, giudicano spesso non tanto in base a vere e proprie conoscenze di fatto, quanto in base a quelli che si chiamano comunemente pregiudizi, preconcetti, e che noi potremmo definire distorsioni interiori di carattere emozionale. Questo passaggio dal giudizio emozionale al giudizio conoscitivo si apparenta a quello, già menzionato, per cui si procede dal pensiero magico a quello realistico. Il giudizio animistico del selvaggio di fronte ad un terremoto è, come tutti sappiamo, surclassato da quello della persona civilizzata, la quale sa benissimo che il terremoto è un fenomeno fisico, e non è espressione della collera degli dei. Ma molte persone «civilizzate» giudicano spesso in base alle loro incontrollate emozioni, considerando, per esempio, molto «morale» il tormentarsi e l’autolimitarsi in cento modi, e «immorale» un bacio in pubblico tra innamorati, o istituzioni come la scuola mista! La psicoanalisi aiuta a chiarire e a rettificare questi giudizi, e influisce perciò indirettamente anche sul comportamento, rendendolo più adeguato alle reali necessità dell’uomo.
In sostanza, e concludendo per quanto mi riguarda, a me sembra che la psicoanalisi aiuti positivamente i «ritardatari» (non i ritardatari dell’intelletto, ma i ritardatari dell’affettività) a diventare adulti, facendoli passare in tal modo da moralità sbagliate alla vera moralità.

Calogero

Siamo dunque d’accordo sul punto che anche gli ideali del risanamento psicologico presuppongono criteri etici di distinzione. Il problema (per riprendere le ultime parole di Servadio) è però, ora, appunto questo: – Che cosa significa diventare adulti? Qual’è la vera moralità? -.
In questo senso, l’elenco di criteri che Servadio ha dato è molto opportuno, per un doppio ordine di considerazioni. Anzitutto egli ha fatto vedere come ci siano criteri i quali sembrano finali e determinanti, e che invece in realtà non sono tali, in quanto restano subordinati a criteri di valore più alto. Ha fatto a questo proposito un’analisi rapida, ma del tutto pertinente, di un’idea molto diffusa non solo in sede psicologica, ma anche nel campo della sociologia e dell’assistenza sociale. È l’idea dell’«aggiustamento», dell’«adattamento»: cioè l’ideale dell’essere adattati al proprio tempo, al proprio ambiente, del non essere quindi «disadattati»; è, come anche si dice, l’ideale dell’«appartenere», di to belong, per usare il verbo inglese che è diventato quasi un termine tecnico a questo proposito. Servadio ha fatto viceversa vedere benissimo che occorre essere a adattati » quando la realtà merita che ci adattiamo ad essa, e occorre non essere «adattati» quando la realtà non lo merita, cioè esige, viceversa, che ci sforziamo di modificarla.
Dunque non possiamo mai considerare come finale criterio etico quello dell’adeguazione, per quanto valido esso possa essere come criterio secondario. Ma ciò vale anche per tanti altri criteri dello stesso tipo, che pur sono stati tante volte considerati fondamentali nel campo della morale, quali per esempio l’idea dell’adeguarsi alla natura, del rispettare la natura, dell’essere normali, del curare la perfezione del proprio essere, ecc. In realtà, in tutti questi casi noi evadiamo dall’obbligo della semplice scelta fondamentale, tra ciò che vogliamo come bene e ciò che respingiamo come male, mascherando questa scelta con altre considerazioni di ordine naturalistico. Quando noi, per esempio, diciamo che vogliamo essere «normali», ovviamente intendiamo che vogliamo essere normali nel senso di quella normalità che consideriamo positiva, ma non nel senso di quella normalità che non consideriamo desiderabile. Se infatti considerassimo normale l’essere assolutamente come saremmo secondo natura, dovremmo trarne come conseguenza il divieto di farci la barba, anzi addirittura di lavarci la faccia. E nemmeno potremmo curarci, o affidarci ad un chirurgo: qualunque azione di questo genere è infatti in certo senso contro natura. È quindi ovvio che, per lo meno, ci sono qui due «nature», quella che si coltiva e quella che si combatte: dunque non basta dire che si deve seguire la natura. Eppure formule di questo genere continuano ancora oggi ad essere largamente adoperate quali criteri ultimi di valutazione. Pensate a quando, poniamo, si discute di controllo delle nascite, e si sente dire che certi mezzi di controllo della fecondità vanno respinti perché sono «contro natura». Ma che vuol dire contro natura? Già prendere un’aspirina è contro natura, perché la natura non ci ha dato l’aspirina: dobbiamo farcela da noi, e introdurre in noi quel corpo, che non è un semplice cibo naturale.
Di fronte a tutte queste pseudo-etiche, bisogna avere il coraggio di individuare la scelta etica fondamentale. E allora è molto importante esaminare quello che ha detto Servadio, quando ha cercato di far vedere quali sono le scelte etiche che anche la psicanalisi, in sostanza, presuppone. A tal proposito, infatti, il problema è quello di sottoporre anche questo elenco di criteri morali a una certa critica sistematica, perchè, se siamo d’accordo che qui si tratta di vedere quale è il criterio, è chiaro che questo criterio deve essere uno solo. La norma delle norme non può essere che una, se deve fornirci anche la capacità di scegliere tra più norme, nei casi in cui i loro comandi possano manifestarsi in conflitto. Se, in altri termini, vogliamo avere la possibilità di giudicare quali regole di comportamento sono valide, e quali non sono valide, dobbiamo farlo in base ad un criterio unico. Non possiamo farlo in base a molte regole, salvo nel caso che queste ultime si riducessero in realtà alla stessa regola.
Ora, le regole indicate da Servadio sono tutte interessanti e importanti: ma si tratta di individuare, fra esse, quale sia la vera regola di fondo, capace di orientare anche l’uso di tutte le altre. Alcune di queste, di fatto, restano ancora soltanto sul piano strumentale. Quanto, per esempio, Servadio ha detto circa il rapporto fra «autismo» e «realismo» e la conseguente necessità di essere «realistici» e non «autistici», così come quanto ha osservato circa l’opportunità di basarsi, ai fini dell’affrancamento dalla paura, su giudizi conoscitivi e non su giudizi emotivi, si riferisce in realtà alla stessa prospettiva problematica, di cui egli medesimo aveva bene individuato e criticato il limite in ciò che aveva prima detto circa l’ideale dell’«adattamento» e dell’adjustment. Concepito su questo piano, ontologico e gnoseologico, di relazione fra la soggettività e l’oggettività, il rapporto fra «realismo» ed «autismo» si risolve infatti, in ultima analisi, in quello fra accettazione della realtà e volontà di modificare la realtà. Quindi vale anche qui quello che lo stesso Servadio ha osservato nella sua giusta critica dell’ideale dell’«adattamento». Non possiamo, in sostanza, semplicemente dire:
– Sii realista! -; e tanto meno: – Non essere mai idealista, sii soltanto realista! -. Un imperativo del genere, non potremmo considerarlo come suprema regola morale nemmeno per l’uomo politico. La realtà è che quell’esortazione vale soltanto in certi limiti, mentre in altri limiti può occorrere l’esortazione opposta. L’esortazione valida sarà dunque: – Sii realista per tutto ciò che devi accettare della realtà, e non essere realista per tutto ciò che devi rifiutarne! -.
Il realismo » non è dunque un criterio ultimo di valutazione il metro fondamentale dev’essere un altro. Ma consideriamo ora, invece, quel che Servadio ha detto a proposito dell’autonomia e della eteronomia, cioè della scelta fra l’ideale etico dell’obbedienza e quello dell’assunzione di responsabilità. Egli ha detto che, in fondo, l’ideale della psicanalisi è di creare individui il più possibile consapevoli delle loro decisioni, i quali quindi non si lascino comandare dall’inconscio, ma si assumano la responsabilità di quello che fanno. La responsabilità massima, però, è quella stessa della scelta del criterio costante delle proprie azioni. Il problema dell’autonomia coincide con ciò col problema ultimo della morale, ed è dunque molto importante che questo sia avvertito anche dalla psicanalisi.
Qui però aggiungerei che non si tratta soltanto di creare individui autonomi, ma di creare individui autonomi capaci di creare altri individui autonomi cioè individui che non solo abbiano autonomia, ma amino l’altrui autonomia. Questa, di fatto, è la fondamentale regola etica: e solo dalla consapevolezza della sua incondizionata validità noi possiamo attingere anche quel senso di sicurezza, che la stessa psicanalisi vuol garantire, e che deve restare indipendente dal fatto che ci siano poi infiniti dispareri nelle menti e nelle scelte altrui. Questi innumerevoli dispareri, – le diverse regole di costume, per esempio, ricordate anche da Servadio, come proprie delle diverse religioni, dei diversi ambienti, le diversità di valutazione del musulmano rispetto al cristiano, ecc. ecc., – tutte queste varietà di criterio sono il nostro continuo problema. Non possiamo mai presumere, rispetto a queste diverse valutazioni, di conoscerle in precedenza, e, per così dire, di amministrarle in precedenza. Ma che dobbiamo cercare di conoscerle, che dobbiamo costantemente cercare di capirle, che dobbiamo costantemente preoccuparci che ciascuno segua la stessa regola di pari mutua comprensione, questo è qualcosa di assoluto, qualcosa che non può mai cambiare. La volontà di capire i dissensi è la sola disposizione spirituale, che non possa essere infirmata da alcun altrui dissenso. Questa è la regola etica, e non può essere diversa oggi da quella che era al tempo di Socrate o di Gesù Cristo, né possiamo immaginarla diversa in qualunque futuro possibile, in qualunque universo possibile.
Questa regola del rispetto dell’altrui autonomia a condizione che essa stessa crei ulteriore autonomia, cioè questa regola delle pari libertà, dell’assoluta libertà di coscienza di ognuno alla sola condizione che essa sia appunto pari per ognuno, dev’essere dunque la regola di base anche per lo psicanalista, il quale può da essa veni sostenuto e diretto nella sua azione anche in ciò che a quest’ultima non appare semplicemente dettato dalle condizioni e dalle esigenze del suo paziente. A questo proposito vorrei fare un’ultima osservazione. Servadio ha osservato come questa valutazione etica coincida con la valutazione scientifica, che la psicanalisi fa dell’evoluzione psicologica. In fondo, creare individui morali, dal punto di vista di quello che abbiamo cercato di chiarire, non significa se non crear individui i quali non godano semplicemente della propria soddisfazione, ma godano insieme della soddisfazione propria e della soddisfazione altrui: cioè individui capaci di convivere, individui atti a coesistere, pariteticamente aiutandosi nella fruizione delle cose. Ora, in termini di evoluzione psicologica questo coincide col fatto che lo spirito dell’aggressività e della competizione, la volontà di vincere e di distinguersi e di essere primi, è una volontà più primitiva, più infantile, a paragone dell’eros, la volontà di amore, in cui il piacere non è nel vincere, ma nel godere insieme in una situazione di assoluta parità, in una situazione in cui la gioia propria è coesistente con la gioia altrui, e si moltiplica indefinitamente per la sussistenza della stessa gioia altrui.
È una situazione in cui non c’è vittoria, non c’è colui che è riuscito primo e l’altro che è riuscito secondo, non c’è colui che ha trionfato e l’altro che è stato sconfitto, non c’è colui che ha avuto successo e l’altro che ha avuto insuccesso; c’è, al contrario, quella che si dice appunto la felicità della gioia comune. Ora, direi, il buon messaggio della psicanalisi è che questo passaggio dal gusto del vincere a quello del godere insieme, dall’etica della competizione a quella della coesistenza, corrisponde a quella che si può ormai considerare la normale evoluzione. Gli uomini, per lo più, non tendono dal gusto della convivenza al gusto della vittoria, ma piuttosto dal gusto della vittoria al gusto della convivenza.
Questa constatazione psicologica è un fatto confortante. Aggiungerei però che il nostro canone di valutazione non deriva solo da questo fatto, e non muterebbe se per caso, viceversa, dovessimo a un certo punto constatare che le cose vanno diversamente, che gli uomini sono inizialmente buoni e in seguito peggiorano, che insomma l’evoluzione degli affetti procede piuttosto verso lo spirito della aggressività che verso quello del mutuo godimento. Anche in tal caso la regola etica resterebbe la stessa, pur essendo più difficile il metterla in atto. E anche allora lo psicanalista non potrebbe seguire, per la sua rotta, una bussola diversa da quella del moralista. Dir questo non è, d’altronde, se non ribadire quel comune principio di valutazione etica, che appare ormai condiviso, contro tanti vecchi rigorismi, sia dalla considerazione psicanalitica, sia dalla riflessione morale più moderna. Questa mi pare potrebb’essere la conclusione della nostra conversazione.

29 gennaio 1960.

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