L’avventura di Conan Doyle
Luce e Ombra 1947

Chi legge, o rilegge, le Avventure di Sherlock Holmes, di Conan Doyle, si raffigura il famoso « poliziotto dilettante » – fratello maggiore di molti infallibili sbrogliatori di delittuose matasse – sotto due aspetti quanto mai differenti.
Noi vediamo anzitutto, curvo sopra un’impronta digitale o su tracce grigiastre di cenere, un uomo dallo sguardo acuto, dalla volontà inflessibile, dal cervello funzionante come un meccanismo d’orologeria – l’uomo che da indizi apparentemente sconnessi ricostruisce lucidamente il furto o l’assassinio; che mette in sesto, come in un drammatico giuoco di pazienza, quel che per tutti gli altri è disordine e mistero; che, all’occorrenza, sa affrontare con freddo coraggio fisico situazioni gravissime, pericoli mortali…
Ma vediamo anche il sognatore, l’uomo che dimentica di mangiare per rincorrere perdute armonie col suo violino, il moderno alchimista che escogita sintesi di strane sostanze nel suo piccolo laboratorio, l’individuo che per anni tutti credono morto, e che vive nel frattempo una vita di solitaria contemplazione: uno Sherlock Holmes fantasioso, introvertito, perduto in un mondo d’illusioni e di chimere.
Come si spiegano questi due aspetti di uno stesso personaggio aspetti che taluni imitatori di Conan Doyle hanno pedissequamente trasferito su tipi analoghi, senza ottenere, neppur lontanamente, un carattere altrettanto plausibile e vivo?
La spiegazione sta in una proiezione psicologica effettuata da Conan Doyle sul suo Sherlock Holmes – giacché questa duplice esigenza, di affrontare la realtà nei suoi aspetti più concreti, con tutte le possibilità di una mente vigorosa e volitiva, e al tempo stesso di trasportare in questa realtà elementi meravigliosi e fiabeschi questa esigenza è dello stesso Arturo Conan Doyle, e si riflette non soltanto sulla sua opera, ma sulla sua stessa vita.
C. G. Jung ha osservato che certe tendenze dell’uomo, tenute a freno e ignorate talvolta da lui stesso nella prima parte della sua esistenza, si rivelano nella seconda. E’ il caso di Conan Doyle: il quale soltanto verso i sessant’anni finì per aderire allo spiritismo; ma in un modo così singolare ed eccessivo da sgomentare taluni fra gli stessi spiritisti più colti e moderati. I titoli dei primi libri spiritistici di Conan Doyle sono assai eloquenti: La nuova rivelazione, Il messaggio vitale. Checché ne dica l’autore, appare chiaro che lo spiritismo è per lui non già la conclusione, più o meno difendibile, di una ricerca filosofica e scientifica, ma una fede religiosa. E come apostolo di questa fede, infatti, Conan Doyle si mette a girare il mondo, tiene innumerevoli conferenze in Australia, nella Nuova Zelanda, negli Stati Uniti, nel Sud Africa, nel Nord Europa – trascurando i suoi cospicui interessi di popolarissimo scrittore, e, per contro, spendendo egli stesso somme non indifferenti. Secondo un calcolo approssimativo, il bando del «messaggio vitale» costò all’autore di Sherlock Holmes, tra spese e mancato guadagno, circa 200 mila sterline.
Tuttavia, sbaglierebbe grossolanamente chi credesse che per Conan Doyle questa « svolta » significhi decadimento mentale o addirittura demenza senile. La sua intelligenza, e soprattutto la sua energia, rimangono tali e quali, e fors’anche si potenziano. Il fatto è che Conan Doyle ha finalmente trovato ciò che inconsciamente e da molto tempo cercava: un piano dello spirito sul quale s’incontrassero il meraviglioso e il concreto; dove si svolgesse l’investigazione circostanziata e minuziosa – tipo Sherlock Holmes – di aggrovigliati, stupefacenti misteri. Il mondo dei presunti «spiriti», il mondo della nebbia – come lo chiama lo stesso Conan Doyle in un altro suo libro – diventa accessibile e tangibile.
Ma a Conan Doyle, evidentemente, il contatto con i sedicenti spiriti – stabilito in sedute medianiche, e persino a mezzo delle ingannevoli e discutibili « fotografie spiritiche » – non è sufficiente. Un altro settore del meraviglioso gli si schiude improvvisamente dinnanzi. Nel piccolo villaggio inglese di Cottingley, due bambine dichiarano di aver visto le fate. Il padre di una di esse le munisce di una piccola macchina fotografica, e ne risultano due istantanee prese all’aria aperta: nella prima, si vede una delle bambine con un gruppo di quattro piccole fate che danzano sospese per aria; nella seconda, l’altra bambina osserva la danza sull’erba di uno gnomo barbuto… Sulla base di queste, stupefacenti fotografie, Conan Doyle scrive un articolo sensazionale nel numero natalizio della diffusissima rivista inglese The Strand, e lo fa seguire da un libro ancor più sensazionale, apparso nel 1922, intitolato L’avvento delle fate.
Inutile descrivere il putiferio scatenato in tutta la stampa inglese, e in una parte di quella europea, in seguito a queste pubblicazioni. Piccoli gruppi di occultisti, attraverso i loro periodici, manifestarono viva soddisfazione, con articoli sul tono di « Ma noi l’avevamo sempre detto! ». Nella loro grande maggioranza, tuttavia, gli scritti furono di critica e di polemica, e alcune fra le stesse riviste spiritistiche manifestarono il parere che Conan Doyle, appoggiando col suo nome famoso episodi così incredibili, fosse andato troppo lontano, e avesse in sostanza danneggiato la causa dello spiritismo anziché avvalorarla. Non mancarono, è vero, alcuni spiritisti i quali tentarono d’« inquadrare » anche le fate in un loro presunto spiritismo positivo. Vi fu ad esempio chi sostenne che le fate erano anch’esse spiriti, ma visti per così dire come attraverso n cannocchiale alla rovescia. Quanto a Conan Doyle, egli espresse addirittura l’ipotesi che le fate rappresentassero una linea separata d’evoluzione, diversa da quella del genere umano…
Giova avvertire, a questo punto, che la questione delle fate non ebbe seguito nel mondo spiritistico, e che le fotografie di Cottingley sono rimaste uniche nel loro genere. Forse si trattò di falsificazioni; forse di un caso singolarissimo di « forme-pensiero » che per vie ancora sconosciute impressionarono le negative. Ma quello che più interessa al riguardo è l’atteggiamento di Conan Doyle. Il suo Avvento delle fate è un libro per molti rispetti senza eguali. Le tradizioni folkloristiche intorno al regno delle fate vi sono descritte con una vivacità e un colore del tutto degni delle più brillanti avventure di Sherlock Holmes. Sembra veramente che Conan Doyle abbia ritrovato, con tutto il vigore di un intelletto adulto, un paradiso perduto della fanciullezza, di quell’epoca in cui si crede alle fate, agli gnomi, alle loro danze leggere sui prati rugiadosi, alle stupende avventure di Peter Pan, della regina Mab e della Fata dai capelli turchini. Ebbene – sembra dire Conan Doyle – questo mondo rinasce, ritorna, ci circonda: è invisibile e visibile al tempo stesso, come quello degli spiriti nelle sedute medianiche; è un fiabesco dimostrabile, è un meraviglioso che possiamo persino fotografare…
La vita di Conan Doyle continua sino alla fine in modo quanto mai felice. I suoi mezzi gli permettono di abbandonare l’attività di romanziere, e di dedicarsi per intero agli spiriti, alle fate, alla propaganda della « nuova rivelazione ». Il suo ultimo libro, pubblicato nel 1930, s’intitola L’orlo dell’ignoto.
E in quello stesso anno Conan Doyle, settantaduenne, muore, entra nell’ignoto, convinto di penetrare finalmente in pieno nel «mondo della nebbia ». Se pensiamo alla sua dipartita sembra – ed è immagine quasi inevitabile – di vedere Sherlock Holmes, in un’alba grigia londinese, lasciare le case degli uomini, procedere nella densa foschia della capitale, fiducioso, i sensi all’erta, verso l’invisibile.
EMILIO SERVADIO

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