Problemi psicologici dello scrittore
Bollettino del Sindacato Nazionale Scrittori, Aprile 1963

Non sono ancora del tutto sopite le discussioni sui rapporti fra arte e nevrosi, fra letteratura e nevrosi. L’idea che lo scrittore fosse di necessità un nevrotico ha tenuto il campo per molti anni, e gli stessi psicoanalisti non hanno se non occasionalmente, e soprattutto di recente, rinunziato a ricercare i fondamenti di una data produzione letteraria nelle componenti psicopatologiche della personalità del suo autore. Basterà per tutti citare il saggio — per tanti versi ammirevole — di Saul Rosenzweig su Henry James, nel quale, dopo una disamina straordinariamente acuta del «complesso di evirazione» del James, troviamo scritto che in tal modo «sono state delineate le infelici origini del suo genio».
Freud manifestò volta a volta tesi abbastanza diverse sulla psicologia dello scrittore e dell’artista creativo. Egli affermò risolutamente da ultimo che la psicoanalisi «non può far nulla per spiegare la natura del talento artistico, nè per spiegare i mezzi con i quali l’artista lavora» —· modificando cosi sostanzialmente la sua iniziale tesi dell’artista quale cultore d’illusioni, e dell’arte quale soddisfazione vicaria, non realistica, raggiunta attraverso meccanismi non troppo dissimili da quelli nevrotici. Naturalmente Freud,· al pari di tutti quelli che hanno cercato di studiare un dato scrittore od artista sotto il profilo psicologico-clinico, ha dovuto sottolineare i tratti nevrotici degli autori da lui esaminati — Leonardo o Dostoevskij, Hofmann o Jensen. Ma da questo — che come ripetiamo è un fattor comune di simili indagini — non si può dedurre che per Freud e per la psicoanalisi la nevrosi sia la molla propulsiva dello scrittore o dell’artista. Come ha messo molto bene in rilievo il Trilling, questa e simili tesi hanno trovato credito per molteplici ragioni. Che il poeta dovesse di necessità essere un anormale e un rèprobo fu idea cara ai borghesi dell’Ottocento, i quali accolsero pertanto con soddisfazione le teorie di Max Nordau o del nostro Lombroso su «genio e follia», o su «genio e degenerazione». Gli scrittori romantici, dal canto loro, fecero di tutto per alimentare simili fantasie. A vari gruppi sociali — scrive il Trilling — il mito dell’artista malato risulta vantaggioso perche «gli conferisce in parte gli antichi poteri e privilegi dell’idiota e del folle — creature semi-profetiche…».

In molti fra gli stessi creatori d’arte o di poesia è indubbiamente tuttora radicata la convinzione che un certo tipo di produzione e di «potere» non possa ottenersi se non attraverso la sofferenza. Si tratta di un’idea tradizionale e diffusa, anche se non sempre consapevole. Essa, in linea puramente teorica, non trova giustificazione, poiché non vi è alcun motivo a priori di equiparare il lavorare al soffrire, il travaglio creativo al dilaniamento interiore o alle disavventure dell’esperienza. Sta di fatto però che nella stragrande maggioranza degli uomini esiste un quantum di masochismo inconscio, il quale fa sì che in ogni caso, l’uomo non soltanto paghi le proprie riuscite con una notevole spesa di energia psichica, ma aggiunga al conto un certo ammontare di sofferenza, che gli sembra giusta e nella quale in fondo si compiace.
E’ questa la «nevrosi di base» — come la chiama il Bergler — che di­stingue poco o tanto la condizione umana. Freud scrisse che quello di «malattia» è essenzialmente un concetto pratico; e che se si considera la nevrosi in termini di consumo di energie psichiche impegnate in conflitti non produttivi, «trascurando la questione del grado, e evidente che siamo tutti malati, e cioè nevrotici, poiché le condizioni che portano alla formazione dei sintomi sono riscontrabili anche nelle persone normali».
Se però ci atteniamo alla definizione pratica di nevrosi, troviamo che lo scrittore può essere più o meno nevrotico, ma che l’esserlo non è necessariamente legato alla sua qualità di scrittore. Non si è Baudelaire o Poe perché si è nevrotici, così come non si è Van Gogh perché si è schizofrenici. Tuttavia lo scrittore presenta, nei confronti della nevrosi, alcuni problemi del tutto singolari, su cui vale la pena di soffermarsi.
Il primo problema è la posizione delicata in cui lo scrittore — pari in questo all’artista e all’uomo creativo in genere — si trova di fronte alle proprie «autorità» interne. Lo scrittore e l’artista, diversamente dagli appartenenti ad altre categorie professionali, puntano le proprie difese sopra una carta sola, in un giuoco che la volontà e le intenzioni coscienti controllano soltanto in parte. Tutti sanno che l’atto creativo dello scrittore è in parte volontario, ma dipende in parte da stati psichici sui quali la volontà non ha propriamente presa. Lo scrittore e l’artista sono dunque esposti a vicende psicologiche specifiche, per le quali può essere messa più facilmente a repentaglio la loro legge interiore, ossia la loro stessa ragion di vivere.
Ma in particolare, lo scrittore ha trovato, del tutto inconsciamente, una sua «formula magica», che dovrebbe permettergli di sfuggire ad alcuni fondamentali conflitti umani di base, relativi al cosiddetto «rapporto con l’oggetto». Chiunque scriva per vocazione e professione sembra contraddire la «dipendenza orale» infantile dall’oggetto materno mediante la produzione autarchica di un «cibo spirituale» più o meno prezioso, di cui si nutre anzitutto egli stesso, e di cui fa partecipi gli altri. Ciò avviene attraverso una complessa serie di meccanismi di difesa e di «alibi» interni, sui quali non possiamo qui soffermarci. E’ questo, in sostanza, il contrassegno patognomonico dello scrittore, per cui si può distinguere una «sua» nevrosi da quelle tipiche di altre categorie, o dal sottofondo più o meno nevrotico di chicchessia. Lo scrittore potrà dunque occupare, dal punto di vista di una diagnostica psicologica e psicopatologica, una casella qualsiasi in quanto uomo (salva quella par­ticolare vulnerabilità già menzionata, che ha in comune con gli spiriti creatori): ma la sua «croce» specifica e la possibilità d’inaridimento nevrotico, il blocco produttivo, il cosiddetto «crampo dello scrittore» — così come la sua singolarissima abilità consiste nel fare accessibile agli altri il proprio mondo interiore, ivi compresi i suoi aspetti conflittuali, abnormi e nevrotici.
L’importanza vitale di questo punto fa sì che lo scrittore, assai sovente, accetti tacitamente e quasi di buon grado le manifestazioni, su altri piani ed in altri settori, del suo masochismo neurotico, e che anche chi giudica questo monstre sacré sia portato a considerarlo come un protetto degli dei, non rilevando le non poche «voci passive» (spesso disastrose) che è dato ogni tanto individuare nella sua economia psichica.
C’e chi non trova requie nei molti e frequenti amori, chi si sente misconosciuto o malvoluto, chi indulge all’alcool, chi soffre d’insonnie invincibili, chi pratica «cerimoniali» coatti in varie occasioni, chi sembra far di tutto per cadere sotto questo o quell’articolo del Codice penale, chi è soggetto a frequenti depressioni… Sino a tanto che tali guai o disturbi o tormenti non gli impediscono di scrivere, lo scrittore tende ancor oggi a considerarli come scotto necessario, quasi doveroso, comunque inevitabile, e ben di rado pensa sul serio a consultare in proposito il medico, lo psicologo, o lo psicoanalista. Di fronte al «blocco» o «cram­po», che gli è tipico, lo scrittore assume peraltro un atteggiamento ben diverso — di protesta, di sconforto, di disperazione; e sono ormai meno rari i casi in cui ricorre, dopo non pochi tentennamenti, all’opera dello specialista. Questi si trova bene spesso di fronte a un quadro ne­vrotico piuttosto ampio, e non gli è sempre facile far capire al proprio eccezionale cliente che non si può ridargli la facoltà di scrivere romanzi, o poemi, o drammi senza in pari tempo prendere alquanto in esame il fatto ch’egli sia, supponiamo, un omosessuale, un carattere compulsivo, o un depresso. In alcuni casi, l’analisi psicoterapica del «blocco dello scrittore» diventa perciò analisi della personalità totale. In altri casi, lo psicoterapeuta può essere invece «costretto» a lasciare allo scrittore un certo pabulum di sofferenza, non potendo neutralizzare del tutto certe sue esigenze intrinsecamente masochistiche, ma più o meno compatibili con una tollerabile esistenza.
Non pochi psicoanalisti hanno avuto a che fare con autori bloccati e «inariditi», anche se ben pochi conoscono veramente a fondo i problemi tipici dello scrittore. Per lo più, lo «sblocco» che certi psicoterapeuti ottengono e dovuto alla proiezione di fantasie d’onnipotenza sulla persona del terapeuta stesso, per cui vengono «abbandonati» i sintomi, ma il conflitto nevrotico di base (che non appartiene al livello del cosiddetto «complesso edipico», bensì alla fase orale pre-edipica) rimane inconscio e intoccato. Simili «successi», di durata sempre limitata, non sono dovuti a un vero lavoro psicoanalitico, e possono essere ottenuti mediante qualsiasi psicoterapia.
Per questo motivo si apprende ogni tanto che uno scrittore dapprima bloccato è stato «guarito» da Tizio o da Caio — psichiatra generico, pseudo-analista, psicologo «junghiano», logoterapista, cultore di yoga, o «mago» che sia. Da quel pochissimo che abbiamo qui indicato, si può desumere di quale tipo di «guarigioni» effettivamente si tratti.
Quanto precede e poco più che uno schema, destinato ad offrire a qualche scrittore i primi elementi per orientarsi nella sua stessa problematica, sulla base dei più aggiornati accertamenti della psicoanalisi e della psicologia dinamica. Ci riserviamo di ritornare prima o poi sull’argomento, in una sede che consenta un più ampio e motivate discorso.

Emilio Servadio

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