Recenti orientamenti della psicoterapia (1)
Rivista di Psicoanalisi n.1 – 1963

I. Introduzione – Le psicoterapie di sostegno

Il concetto di psicoterapia si è andato via via precisando in tempi recenti, anche se la pratica psicoterapica – più o meno disimpegnata, più o meno inconsapevole – è esistita sin da quando si è pensato di poter giovare alla salute del corpo o della mente dell’uomo con mezzi non fisici. Allorché in epoche antiche si consigliava alla persona in pena di consultare l’oracolo di Delfi, o quando ancora ai giorni nostri, lo stregone africano borbotta parole misteriose accanto al giaciglio di un ammalato, si trattava – o si tratta pur sempre – di psicoterapia in senso lato. E nelle nostre società moderne e civili, quando un amico dice all’altro: “Vieni con me a fare una gita in macchina, e vedrai che ti passano le lune”, effettua una sorta di psicoterapia semplice ed elementare.
Ma come il molieresco Monsieur Jourdain non faceva, tutto sommato, della vera “prosa” quando semplicemente parlava, così chi da un consiglio, o rivolge un conforto, fa della psicoterapia per modo di dire. La sua azione, cioè, è altrettanto lontana dal piano della psicoterapia scientifica quanto la cosiddetta “prosa” di Monsieur Jourdain è lontana da quella di uno Stendhal, o di un Flaubert.
La psicoterapia vera e consapevole si fonda su concezioni articolate e precise della vita psichica, della struttura profonda di molti disturbi anche gravi dell’attività mentale conscia ed inconscia, e dei processi psicosomatici. Essa si rivolge inoltre a casi e problemi ben più seri che non un passeggero malumore, una momentanea crisi sentimentale, o un vago “non sentirsi bene”. Applicando sistemi e tecniche diversi, ma con un unico scopo in vista, gli psicoterapeuti rivolgono la propria azione ad alleviare e risolvere angosce, fobie, gravi inibizioni, nevrosi di carattere, idee ossessive, disturbi della vita sessuale, deviazioni della personalità, e persino, in qualche caso e ad opera di coraggiosi pionieri, profonde turbe ed alienazioni mentali. Sono pure di competenza della psicoterapia diversi disturbi che si ritenevano un tempo di origine fisica, e di cui l’indagine moderna ha dimostrato invece la natura in tutto o in parte psicogena – come certe forme di ulcera, talune malattie della pelle, tipi d’asma, disfunzioni gastro-intestinali, cefalee, reumatismi, eccetera.
Nel senso che abbiamo cercato d’indicare, la moderna psicoterapia può dunque definirsi, come ha fatto V. E. Fischer, “un’applicazione pianificata e sistematica di teorie e fatti psicologici, intesa all’alleviamento di una notevole quantità di mali e disturbi umani, particolarmente di origine psicogena”.
Se cerchiamo adesso di precisare ulteriormente che cosa sia la psicoterapia, ci troviamo dinnanzi a notevoli difficoltà: poiché le definizioni che abbiamo cercato di dare possono applicarsi non già a un sistema e ad una tecnica, ma a una pluralità notevole d’indirizzi e di metodi. L’individuo agitato – supponiamo – da paure morbose o da idee ossessive, e che pensi o decida di sottoporsi a un trattamento psicoterapico, può trovarsi, specie se ha qualche conoscenza o lettura al suo attivo, in serio imbarazzo. Quale sarà il trattamento adatto? La psicoanalisi freudiana o la psicologia individuale secondo Adler? L’analisi esistenziale o lo psicodramma? La psicoterapia non direttiva di Rogers, o quella orientativa di Alexander? E che pensare delle terapie fondate sul rilassamento? E perché no lo yoga? E che efficacia avrebbe l’ipnosi?
Vedremo, nel corso di queste conversazioni, che molti metodi psicoterapici hanno alcuni elementi in comune, e che, sovente, non si tratta di metodi intercambiabili, bensì di approcci diversi, adatti a differenti casi. Per adesso, ci basti notare che nessun metodo psicoterapico può prescindere da certi fondamenti, che sono stati messi in luce e definiti ai tempi nostri, mentre erano ignorati, o al massimo impliciti, in altri tempi. Il primo di essi è l’esistenza di un mondo psichico, o, come altri preferiscono dire, di un apparato psichico umano, i cui commovimenti possono influenzare praticamente ogni aspetto, o parte, o funzione della personalità totale.
Il secondo è la possibilità teorica di descrivere questo mondo in termini scientifici: di stabilire, cioè, un sistema di coordinate a cui fare costante riferimento.
Il terzo è la possibilità d’imparare a conoscere i progressi psichici, psico-affettivi, psico-patologici dell’uomo, così come s’impara a conoscere il suo organismo, la sua fisiologia e la sua patologia: il che equivale a dire che la psicoterapia scientifica è riservata ai competenti, e non dovrebb’essere praticata da dilettanti.
Il quarto e l’ultimo è la possibilità, ormai largamente comprovata, di agire sull’apparato psichico, e quindi sulla personalità, con la stessa consapevolezza, scelta di mezzi e proprietà d’intervento con cui si può agire sul funzionamento di un fascio di muscoli, o su una appendicite – con risultati, cioè, concreti e tangibili, i quali consistono sia nella modifica, nell’alleviamento o nella scomparsa dei sintomi, sia nel ricupero individuale e sociale del singolo, sia nella ristrutturazione ab imis della personalità, per motivi che possono anche trascendere quelli strettamente terapeutici.
Non sembra né utile, né necessario, passare in rassegna alfabetica o cronologica i vari indirizzi e metodi psicoterapici, poiché così facendo, si rischierebbe di trascurare l’essenziale, e di smarrirsi in un dedalo di vie traverse, d’incroci e di diramazioni. Più interessante ci pare il tentativo di raggruppare i principali sistemi di psicoterapia a seconda che si propongano d’influenzare l’individuo più che altro “per linee esterne”, ossia senza preoccuparsi di ricercare le cause lontane, profonde ed oscure dei suoi problemi o disturbi; ovvero che intendano perseguire più o meno sistematicamente una tale ricerca, onde ottenere vaste e permanenti modificazioni delle radici stesse della personalità psichica. Naturalmente fra il primo gruppo di psicoterapie, che potremmo chiamare “di puntellamento” o “di sostegno”, e il secondo, cui si addice il nome di psicoterapie “di ricostruzione”, esistono gruppi intermedi, che nel loro assieme potrebbero esser chiamati “psicoterapie non superficiali a fini rieducativi”.
Prima di considerare, nella conversazione di oggi, le psicoterapie di sostegno, è necessario ricordare che in tutti i settori della psicoterapia moderna si fa tuttora sentire la poderosa influenza del pensiero di Freud e delle sue memorabili scoperte. È doveroso riconoscere che la psicoanalisi di Freud non è tutta la psicoterapia: ma è altresì legittimo dichiarare che senza la psicoanalisi freudiana, la psicoterapia scientifica sarebbe ancora quella, assai rozza, degli ipnotizzatori del secolo passato, o degli approcci fondati su una generica simpatia, sull'”ascendente” del terapeuta e sul buon senso. Ciò d’altronde è unanimemente ammesso dagli odierni psicoterapeuti di qualsiasi scuola; e non a caso, in apertura del Congresso mondiale di psicoterapia di Zurigo, pochi anni or sono, fu dichiarato che Freud aveva posto “la pietra angolare di ogni pratica psicoterapica e di qualsiasi considerazione teorica in tema di psicoterapia”.
I metodi psicoterapici che abbiamo chiamato “di sostegno” mirano, come si è detto, a rafforzare la struttura psichica senza alternarne i fondamenti, e sono paragonabili al razionale puntellamento e alla riparazione di una casa non troppo assestata, ma che non s’intende sottoporre a una ricostruzione radicale. Il più immediato di tali interventi è quello della rassicurazione, e si può ben dire che esso fa parte, sia pure in gradi a volte lievissimi, di ogni applicazione psicoterapica. L’individuo ansioso che teme il peggio, la persona che fantastica di avere un male incurabile, quella che è in preda a gravi sentimenti di colpa per mancanze di nessun conto o per aver nutrito impulsi ostili verso qualcuno – tutti costoro possono trarre beneficio da rassicurazioni autorevoli, accompagnate da qualche spiegazione orientativa. Naturalmente, questo tipo di psicoterapia non può in alcun modo risolvere problemi generali della personalità, o vere e gravi nevrosi cliniche.
Gli effetti della rassicurazione sono tanto più sensibili – ancorché superficiali e transitori – quanto più è sentita l’autorità di chi la pratica. Questo ci porta a considerare le tecniche psicoterapiche fondate soprattutto sul prestigio, ossia sulle varie forme di suggestione. Il soggetto che per sua disposizione è incline a vedere nel terapeuta un’immagine di genitore onnipotente, può reagire alle asserzioni e alle ingiunzioni di chi lo cura in modi che possono sembrare miracolosi. La motivazione sottogiacente è la “rinunzia” a un certo tipo di sofferenza da parte del paziente, in cambio e a favore di una sua “resa incondizionata” all’autorità del terapeuta, che vince in tal modo, sia pure provvisoriamente, la sua battaglia. Tale “terapia d’imperio” raggiunge il massimo delle sue possibilità nella suggestione ipnotica, qualora questa venga adoperata, come lo si fece soprattutto nel secolo scorso, ingiungendo al soggetto di star bene, e ordinando la cessazione dei suoi sintomi e delle sue preoccupazioni. Non v’è dubbio che con certe persone, e in certi casi, simili tecniche si possono efficacemente applicare: per esempio, in talune cosiddette “cattive abitudini”, in certi tipi d’insonnia, eccessi nel mangiare o nel bere, punte d’ansia dovute a cause attuali, ecc. Parecchi ipnotizzatori dello scorso secolo nutrivano una fiducia assoluta nei loro poteri, e la infondevano ai pazienti, al punto che riuscivano persino a far loro sopportare senza anestetici. e senza che provassero dolore, operazioni chirurgiche anche importanti.
Le critiche alla “psicoterapia d’imperio” sono di due ordini. In primo luogo, si è potuto notare che le ricadute sono frequentissime – poiché i nuclei del disturbo rimangono inalterati, e l’individuo ricomincia a soffrire non appena il rapporto di forze non volge più a favore della personalità del terapeuta. In secondo luogo, può accadere che la struttura del disturbo stesso si modifichi in peggio. Respinti dal livello in cui i sintomi si erano cristallizzati – sotto forma, supponiamo, di timori fobici – i conflitti profondi del soggetto possono manifestarsi regressivamente a livelli meno sviluppati, e pertanto più gravi: per esempio, nella forma di una affezione somatica. Questi ed altri motivi hanno fatto sì che oggigiorno, la suggestione non venga quasi mai adoperata in tali modi massicci e indiscriminati, bensì a dosi ben calcolate, e quale possibile coadiuvante di altri sistemi od approcci. La stessa ipnosi viene impiegata in modi e con obiettivi sostanzialmente differenti da quelli del passato.
Tutt’altro aspetto, a un primo esame, hanno quelle psicoterapie che si fondano soprattutto sul ragionamento. Sono le terapie della “persuasione”, che ebbero il loro iniziatore, nei primi anni di questo secolo, in un medico svizzero dotato di forte personalità, Paul Dubois. Questo tipo di interventi parte dal presupposto che parecchi disturbi della personalità e molte nevrosi sono dovuti ad atteggiamenti psicologici sbagliati, a vere distorsioni mentali, che possono correggersi attraverso il ragionamento e con un paziente e obiettivo “esame dei fatti”.
All’uso sistematico o esclusivo di questo genere di psicoterapia si oppongono due ordini di considerazioni. Anzitutto è chiaro che la “persuasione” non è se non suggestione diluita, e che cerca di farsi strada modificando l’atteggiamento altrui in modo blando e lento, anziché deciso e autoritario. In secondo luogo, è stato ormai ampiamente dimostrato che molti argomenti “persuasivi” sono spesso impiegati dagli stessi pazienti, i quali si rivolgono sovente delle vere e proprie prediche, dicendosi – ad esempio – che non c’è alcun motivo di aver paura di attraversare una piazza, e di affacciarsi a un balcone. Se tali discorsi non recano di solito alcun giovamento, è perché la vera origine del timore fobico, o di altri disturbi nevrotici, rimane intoccata e non cosciente, e altrettanto inaccessibile al ragionamento quanto un sogno o un delirio? I successi riportati dal Dubois, e da coloro che ancor oggi praticano intensivamente questo metodo, si possono dunque ascrivere alla personalità dei terapeuti, e all’influenza che anche in altri modi essi avrebbero potuto ottenere sui loro pazienti.
Più elastiche, e più aperte alle moderne concezioni dinamiche della psicologia umana sono, infine, quelle psicoterapie che potremmo chiamare “di guida” o “psicopedagogiche” – anche se questo termine possa suonare strano quando sia applicato al trattamento di persone adulte. La “guida” può essere precisa e minuziosa, tale da coprire e pianificare per intero la giornata e la vita del soggetto, oppure può riguardare soltanto le linee essenziali del suo problema e del suo divenire. Può non interferire con i legami ambientali e interpersonali del paziente, o può agire promuovendo cambiamenti di residenza o di lavoro, influendo su familiari e conoscenti, e via discorrendo. Non può sfuggire il fatto che anche in questo tipo di psicoterapia il soggetto dipende largamente dall’autorità del terapeuta, che dev’essere accettata con poche o punte discussioni. Tuttavia il terapeuta stesso, se ben orientato, può alternare oculatamente le indicazioni e le spiegazioni, i consigli e qualche blanda interpretazione, e giovare pertanto a certi soggetti e in certi casi per i quali una terapia più profonda e radicale non è attuabile. Vi sono individui che per debolezza dell’Io, o per il tipo stesso di disturbo di cui soffrono, sono incapaci di assumere vere responsabilità – a cominciare da quella di sottoporsi a trattamenti
in cui il paziente viene lasciato per larga parte a se stesso. In tali casi, una prolungata e oculata psicoterapia di sostegno e di guida può aiutare non poco i soggetti bisognosi di aiuto, anche se non si possa attendersene profondi mutamenti e vere integrazioni della personalità.

II. Le psicoterapie rieducative

Nella passata conversazione, dopo avere indicato alcuni elementi comuni a ogni e qualsiasi tipo di psicoterapia, abbiamo parlato di un loro primo gruppo, quello delle psicoterapie cosiddette “di sostegno”. Di queste abbiamo detto che non si propongono fini diversi da quelli dell’influenzamento “per linee esterne” di una data struttura psicologica, le cui premesse vicine o lontane non vengono né ricercate, né discusse. Daremo oggi qualche cenno relativamente a un secondo gruppo di sistemi psicoterapici: quelli con i quali, pur non avendosi di mira mutamenti radicali e risoluzioni dal profondo di una situazione conflittuale e di una problematica più o meno complessa, si cerca di ottenere una certa presa di coscienza, da parte del paziente, della vera natura dei suoi disturbi, e di produrre qualche modifica permanente nel funzionamento del suo apparato psichico, e nel suo adattamento ambientale e inter-personale. Sono, queste, le psicoterapie “rieducative” – nelle quali il soggetto ed il terapeuta esaminano insieme i modi in cui il primo si atteggia nei riguardi degli altri e di se stesso, e in cui vengono via via riconosciuti, fra l’altro, certi aspetti del comportamento specialmente inadeguati, o controproducenti. Per converso, il soggetto è via via invitato a riconoscere le sue qualità potenziali, e il miglior modo di svilupparle e di utilizzarle. Nelle psicoterapie rieducative non s’interpretano sogni, non si promuovono nel paziente fantasie a occhi aperti o libere associazioni: non vengono, cioè, particolarmente attivate o esplorate le zone più profonde della personalità psichica.
Tra queste psicoterapie vanno menzionate in primo luogo quelle che si propongono obiettivi circoscritti – in cui cioè il terapeuta esamina e discute con il paziente un problema particolare, senza aver di mira o preoccuparsi d’altro. Il sistema della serie d’interviste è uno dei più generalmente seguiti. Lo psicoterapeuta richiama di quando in quando il soggetto all’argomento principale, riassume ciò che l’altro ha detto, ridistribuisce il materiale verbalizzato in miglior ordine, mostra certi nessi causali e logici che al soggetto non erano apparsi. Assai di rado interviene in modo attivo e diretto. Fa tesoro, nelle varie interviste, non soltanto di ciò che dice il soggetto (le cui parole vengono sovente registrate da un magnetofono), ma anche di ciò che non dice – ossia dei suoi silenzi, gesti, abitudini, espressioni facciali, ecc. Questo tipo di psicoterapia rieducativa può svolgersi, a seconda dei casi, in un numero di sedute relativamente piccolo o relativamente grande – ma per un tempo non mai superiore a qualche settimana, e con una frequenza d’interviste settimanale variabile da una a tre.
Non troppo lontana parente delle interviste con scopo limitato è la tecnica che anche in Italia è nota sotto il nome di casework. È stato riconosciuto già da tempo che molte persone aventi difficoltà di ordine sociale (nell’ambiente familiare, nel lavoro, ecc.), non possono essere realmente aiutate se non attraverso una qualche modificazione dei loro tratti e atteggiamenti psicologici personali. Speciali istituzioni, che cominciano a funzionare anche in Italia, consentono a tali persone di elaborare i loro problemi con la collaborazione di un assistente sociale, o di uno psicologo particolarmente addestrato, con il quale egli può in primo luogo ripetere, e riconoscere, certi suoi comportamenti socialmente dannosi (per esempio, aggressività in eccesso, servilismo, misconoscenza delle esigenze altrui), e accettare quindi l’”aiuto sociale” su una base più realistica e più responsabile. L’uomo che dichiarava all’inizio di essere totalmente trascurato dai suoi compagni di lavoro può, per esempio, rendersi conto di alcuni suoi specifici tratti e comportamenti che lo rendevano poco accetto, e modificare di conseguenza le sue lagnanze e le sue aspettative. Aspetti più avanzati ed impegnativi del casework includono interventi tecnici volti a migliorare e ampliare le possibilità di affermazione e di benessere del soggetto, anche prescindendo dai suoi particolari problemi sociali e ambientali del momento.
La psicoterapia rieducativa più tipica è quella che ha come scopo un riorientamento abbastanza consistente del soggetto in difficoltà, e che nei Paesi di lingua inglese va sotto il nome di counseling terapeutico. Il counseling può consistere infatti anche in semplici avvisi e chiarimenti rispetto a difficoltà attuali, e non implicare un vero e proprio lavoro di terapia. Questo lavoro è invece opportuno o necessario in tutti i casi in cui il problema è generalizzato anche se non grave – in cui, cioè, occorre comunque addivenire a un vero e proprio trattamento.
Gli interventi psicoterapici di riorientamento possono distinguersi, schematicamente, in due classi. Nella prima, il terapeuta si astiene rigorosamente dal proporre questa o quella soluzione di problemi singoli, o vie da seguire nella vita, o visioni del mondo. Nell’altra, invece, il soggetto viene guidato con fermezza e decisione lungo una strada e secondo criteri che il terapeuta giudica siano senz’altro i migliori, e quelli a cui il soggetto stesso deve obbligatoriamente ottemperare. Il primo tipo è quello delle cosiddette psicoterapie non direttive, fondato sulle vedute di Carl Rogers, il secondo non ha un vero e proprio caposcuola, anche se si possono ascrivere a F. C. Thorne i principali studi e lavori in argomento.
Secondo Rogers, il soggetto che ha bisogno d’aiuto è comunque responsabile del suo destino, e ha diritto di scegliere la soluzione per qualsiasi suo problema, anche se ciò non corrisponde a quel che avrebbe fatto nei suoi panni il terapeuta. Al paziente non viene quindi proposto, e tanto meno imposto, alcun fine o programma: egli viene semplicemente aiutato a svilupparsi e a determinarsi secondo le linee potenziali che gli sono proprie. Chi lo cura lo aiuta soltanto a riconoscere e a capire queste linee. Nella psicoterapia non direttiva, il terapeuta non fa neppure una diagnosi o una prognosi; non fa valutazioni, e tanto meno formula giudizi. Rogers tuttavia afferma che l’atteggiamento dello psicoterapeuta “non direttivo” non coincide affatto con quello di un passivo “lasciar correre” – benché non si veda come possano conciliarsi una qualunque “attività” e un rigoroso non-interventismo. In un primo tempo – e ciò sembra assai significativo – Rogers aveva limitato la psicoterapia non direttiva ai soggetti più o meno normali, o solo leggermente disturbati: i quali, cioè, avessero un “Io” sufficientemente forte per poter risolvere i propri problemi con un minimo di aiuto. Più recentemente, peraltro, egli ha creduto di poter estendere l’applicabilità del suo metodo alle nevrosi gravi e persino alle psicosi, a bambini di pochi anni come a persone oltre la sessantina. Tutto questo è naturalmente soggetto a discussione, e le critiche al riguardo non sono mancate. A molti, la psicoterapia non direttiva di Rogers è sembrata una sottolineatura assai unilaterale dell’aspetto essenzialmente non “attivo”, non interventistico, della psicoanalisi freudiana.
Tutt’altro indirizzo ha naturalmente la psicoterapia che è stata chiamata direttiva, e che ben si può considerare, come una terapia di sostegno e di guida, intensificata e più profonda. Qui il terapeuta si sovrappone spesso al soggetto, rimodellando la sua visione delle cose e i suoi giudizi, non senza spiegargli perché egli debba perseguire un dato fine anziché un altro. In certi casi, la psicoterapia direttiva giunge a porre il paziente in situazioni artificiali di conflitto, allo scopo di forzare un rimodellamento dei suoi sistemi di difesa e la formazione di nuovi atteggiamenti (ciò particolarmente quando il soggetto sia eccessivamente inerte o abulico). È quasi ovvio notare che questa forma di psicoterapia rieducativa presenta il grave difetto di non portare il paziente all’autonomia, ed anzi di mantenerlo sine die in una posizione di dipendenza. A ciò è stato risposto che esistono persone assolutamente incapaci di raggiungere una vera indipendenza psico-affettiva, le quali vanno, per così dire, tenute per mano vita natural durante. Per tali persone, è certo più conveniente la guida di uno psicoterapeuta consapevole e imparziale che non quella, supponiamo, di un parente nevrotico o di un estraneo irresponsabile!
Buona parte della psicoterapia statunitense si muove ancora lungo le linee eclettiche e sintetiche indicate già molti anni fa da quel pioniere della psichiatria che fu Adolf Meyer. Questi chiamò psicobiologico il suo metodo di approccio, sottolineando il fatto che l’uomo è una sintesi di fattori somatici, neurologici, psicologici e ambientali, e che occorre considerare questi fattori unitariamente e non isolatamente. Meyer non ammetteva che ci si potesse occupare delle funzioni psichiche di un soggetto trascurando la sua costituzione, il suo passato, le malattie avute, i suoi studi, i suoi rapporti con l’ambiente a partire dall’infanzia; ed esortava pertanto lo psicoterapeuta ad effettuare in proposito tutte le possibili ricerche anamnestiche e diagnostiche – anche dal punto di vista somatico e neurofisiologico. Solo dopo questa minuziosa indagine preliminare si può decidere, secondo Meyer, il tipo di psicoterapia che più conviene all’individuo singolo. Non di rado, debbono occuparsi di lui più persone: il medico, lo psicologo, il neuropsichiatra, l’assistente sociale. Sorge così il lavoro in équipe, pianificato e sistematico, e durante il quale i componenti dell’equipe si consultano assai spesso, come capi alleati durante una battaglia. Il paziente passa attraverso una serie ben determinata di visite e d’interviste. In queste, il terapeuta principale assume di solito un atteggiamento piuttosto direttivo, evitando sistematicamente il materiale che gli sembra inutile, e adottando volta a volta le tecniche presumibilmente più giovevoli: suggestione, rassicurazione, persuasione, interpretazione rapida. In qualche caso, i seguaci di questo approccio includono anche tecniche propriamente psicoanalitiche.
Come è facile intuire, questo tipo di approccio globale – che dà, occorre dirlo, risultati appariscenti in un tempo assai breve – può essere attuato soltanto nell’ambito di istituzioni o di cliniche altamente attrezzate, di cui non mancano magnifici esempi negli Stati Uniti ed anche in qualche Paese europeo. È peraltro da ammettere che, non di rado, il perfezionismo della scuola psicobiologica presenta lati di superfluità, e che il lavoro in équipe può andare a detrimento della profondità dell’intervento psicoterapico – profondità la cui condizione essenziale è pur sempre il prolungato rapporto a due fra terapeuta e paziente.
Si fonda su concezioni più neurologiche che propriamente psicologiche la terapia detta del “ricondizionamento”. Essa parte da un’osservazione-base, che sta al centro della moderna riflessologia: che cioè determinate reazioni neuropsichiche – come l’aumento della salivazione allorché ci si accinge a mangiare – possono ripetersi anche qualora gli stimoli siano marginali o accompagnatori: p. es., di fronte all’immagine colorata di un piatto appetitoso, o al suono del campanello che di solito annunzia il pranzo. Se un bambino è stato spaventato da un cane, e teme poi morbosamente i cani, lo si può “ricondizionare” accompagnando per un certo tempo l’immagine del cane con emozioni gradevoli, come il regalo di un dolce o di un balocco. Secondo queste vedute, molte difficoltà emozionali anche dell’adulto sono dovute a “condizionamenti” precoci. È noto, ad esempio, che l’eccessivo timore dei superiori può sovente esser fatto risalire ad apprensioni d’infanzia nei riguardi di un padre autoritario e severo. La terapia del “ricondizionamento” mira – alquanto schematicamente e, secondo molti, semplicisticamente – a rimodellare le reazioni inadeguate, sottoponendo sistematicamente il soggetto a situazioni di “decondizionamento” rispetto ad esse, e di “ricondizionamento” nei riguardi di esperienze d’”incontro con l’autorità” più valide e più convenienti.
Con la sola eccezione dei metodi psicobiologici alla Meyer, che possono ammettere un lavoro in équipe, abbiamo parlato sinora soltanto di sistemi psicoterapici “a due”, nei quali cioè i protagonisti sono il terapeuta e il soggetto – con esclusione di altri quali partecipanti attivi. D’altronde, nei trattamenti psicobiologici possono essere più d’uno i terapeuti, ma uno solo è il paziente. Non così avviene invece nelle cosiddette psicoterapie di gruppo, nelle quali i pazienti sono parecchi. Queste terapie partono dal presupposto che essendo l’uomo un essere “sociale”, molte delle sue difficoltà sono dovute a inadeguatezze o deformazioni nei suoi rapporti interpersonali – includendo beninteso in questa espressione anche i più elementari e primitivi disturbi del bambino nelle sue relazioni con i genitori e con l’ambiente. Il gruppo consente allo psicoterapeuta di valutare anche molto sottilmente il tipo di difficoltà di cui soffrono i singoli individui che ne fanno parte; ed è stato ormai abbondantemente provato che la “messa in comune” di certi disturbi e il non sentirsi a priori respinto o incompreso, esercita già di per sé una funzione benefica sull’individuo che entra a far parte di simili gruppi. Di questi si può senz’altro dire che riducono l’intolleranza e l’aggressività, fanno sperimentare l’inutilità di difese troppo rigide quali l’egocentrismo o il negativismo, promuovono l’interesse per l'”altro” attraverso continui processi reciproci d’immedesimazione e di partecipazione. Sotto la guida di un esperto (e bisogna dire che i veri esperti di questa tecnica non sono molti), la psicoterapia di gruppo si pone oggi in prima linea fra le moderne tecniche psicoterapiche rieducative.
Una forma particolare di psicoterapia di gruppo, ormai abbastanza praticata anche da noi (specialmente a vantaggio di bambini nevrotici) è, infine, lo “psicodramma”, divisato e perfezionato da Moreno. Nello psicodramma s’incoraggia il soggetto ad “agire”, come se fosse sulla scena, molti dei suoi conflitti, timori, atteggiamenti e desideri. A tale scopo, egli ha naturalmente dei partner, che assumono determinate funzioni di critica, di consenso, di opposizione o di completamento, a seconda dei casi, e sempre sotto la guida del terapeuta. Le scene così vissute assumono in un primo tempo un valore liberatorio e catartico; e in un secondo tempo permettono al soggetto di obiettivare lucidamente i propri problemi. Questi, poi, vengono ulteriormente esaminati e discussi in sedute di psicoterapia individuale alle quali, d’altronde, è sempre necessario ricorrere in ultima analisi, sia pure a completamento di trattamenti di gruppo, o di quelli in cui il singolo per così dire “socializza”, ridimensionandolo, il proprio dramma personale.

III. Le psicoterapie ricostruttive – conclusione

Le differenze principali tra le psicoterapie ricostruttive e quelle che nelle passate conversazioni abbiamo chiamato, rispettivamente, “di sostegno” e “di rieducazione”, sono relative sia ai loro fini ultimali, sia alle tecniche in esse impiegate. I fini sono quelli di un’esplorazione in profondità di tutta la struttura psichica, e della risoluzione dei conflitti psichici di base. Le tecniche, pur nella loro varietà, partono dal presupposto che gli anzidetti conflitti siano largamente inconsci, che per individuarli sia necessario superare una serie di resistenze, e che ciò non si possa fare se non sfruttando abilmente certi meccanismi psicologici, come la capacità mnemonico-associativa, l’espressione indiretta di contenuti psichici attraverso il sogno, la riattivazione di situazioni interpersonali passate, la progressiva risoluzione di difficoltà psico-emozionali attraverso una loro graduale individuazione e un loro consapevole riconoscimento. È universalmente ascritto a Sigmund Freud il merito di aver posto i fondamenti della psicoterapia ricostruttiva, che trova ancor oggi nella psicoanalisi freudiana la sua branca principale, tuttora in piena evoluzione.
La psicoterapia psicoanalitica – dei cui sviluppi più recenti diremo tra breve – ritiene che le nevrosi, o i disturbi della personalità, siano essenzialmente dovuti alla mancata o inadeguata elaborazione, da parte dell’apparato psichico, di situazioni ed esperienze importanti, che risalgono di solito all’epoca infantile. Le forze istintive legate a tali situazioni sono anch’esse bloccate e mal distribuite, e buona parte delle energie psichiche è impegnata in un’opera antieconomica, volta a conservare accantonati, inconsci e senza possibilità di sfogo, elementi vitali della psiche. Quest’opera di difesa – erronea, ipertrofica e antivitale – viene mantenuta in atto, a insaputa del soggetto, a causa di antichi timori e di ampie distorsioni del sentimento e del giudizio, risalenti anch’essi alle prime età evolutive, e di cui l’individuo è ignaro. L’opera psicoterapica consiste nella restaurazione in sede di coscienza di ciò che è stato indebitamente ricusato e rimosso, e nel rimettere in circolo buona parte delle energie psichiche inutilmente impegnate e congelate nella nevrosi. Tale progressiva restaurazione coincide con il miglioramento ed infine con la guarigione. Come si è accennato, la tecnica psicoanalitica fa uso delle “libere associazioni d’idee”, dell’interpretazione dei sogni, e del razionale ridimensionamento delle difese psichiche attraverso la comprensione e il superamento delle resistenze. Soprattutto, essa tiene conto del fatto che il soggetto in analisi tende a ripetere nella situazione analitica, e nei riguardi dell’analista, situazioni affettive ed esperienze emozionali del passato che ancora non ricorda. È questo il cosiddetto transfert, la cui considerazione e la cui analisi, insieme con la considerazione e l’analisi delle resistenze, costituisce il sine qua non di ogni psicoterapia che voglia chiamarsi psicoanalitica.
Importanti modifiche alla teoria e alla tecnica della psicoanalisi freudiana – tali da dar vita a movimenti e indirizzi diversi anche nei nomi – furono introdotte sia da alcuni diretti discepoli di Freud, sia da altri psicologi e psichiatri.
Alfredo Adler, nel suo sistema psicologico e psicoterapico detto “psicologia individuale”, svalutò l’importanza degli impulsi istintivi e specialmente degli istinti sessuali – sottolineata energicamente da Freud – e mise maggiormente in rilievo quella dei desideri di potenza, della lotta per l’affermazione, dei rapporti dell’individuo già adulto con la società. Per la psicologia individuale, la nevrosi è soprattutto dovuta a sentimenti d’impotenza e d’inferiorità in tali battaglie vitali, a fughe nell’irrealtà e nella fantasia, a trinceramenti dietro la cortina dei sintomi, che consente di sottrarsi alla vita impegnata. La tecnica della psicoterapia adleriana consiste nell’identificazione dello “stile” personale del paziente, dei suoi fini, delle sue motivazioni razionali e irrazionali. I sogni ed altro materiale vengono utilizzati assai più in funzione del presente che del passato, e il terapeuta assume atteggiamenti assai attivi e direttivi. Tale psicoterapia si discosta dunque in modo pressoché totale da quella della psicoanalisi.
La dottrina e la psicoterapia secondo Carlo Gustavo Jung, tuttora vivente (2), si differenziano ormai profondamente anch’esse da quelle freudiane, da cui tuttavia hanno preso le mosse. Secondo Jung, la personalità umana ha diverse zone, o livelli: il più superficiale è la persona, sorta di “maschera sociale” sotto cui l’individuo cela il proprio Io – il quale è solo in parte cosciente. Gli elementi respinti e rimossi della personalità costituiscono l’ombra, e sono inconsci. Oltre ai contenuti dell’inconscio individuale, entro cui giocano l’ombra e gli elementi non coscienti dell’Io, esiste l’inconscio collettivo, sede di simboli universali, di idee-madri, che Jung chiama archetipi. Le rappresentanze dinamiche del sesso opposto sono, nella psiche umana, l’anima per l’uomo, l’animus per la donna. Gli squilibri psichici si verificano, seconda la teoria di Jung, quando esistono scompensi e disarmonie tra le predette istanze psichiche: particolarmente quando vi è conflitto tra elementi di animus e di anima nello stesso soggetto, e quando vengono inadeguatamente riconosciute e incanalate le immense energie dell’inconscio collettivo. Disturbi specifici del carattere provengono dall’eccessiva predominanza di atteggiamenti di estroversione o d’introversione, ossia di interesse o di negligenza per la realtà esterna, e dall’accentuazione ipertrofica dell’una o dell’altra di quattro funzioni principali dell’apparato psichico, ossia rispettivamente del sentire, del pensare, dell’intuire e del percepire. L’approccio psicoterapico junghiano è decisamente finalistico e pedagogico: ossia mira a chiarire all’individuo i dettami dell’inconscio – considerati sovente quali annunzi e moniti – e a farlo entrare in più consapevole contatto con gli archetipi transindividuali. Una visione religiosa della vita è in genere incoraggiata. Alle psicoterapie di scuola freudiana viene in genere mossa, dagli junghiani, l’accusa di materialismo; a sua volta, la dottrina di Jung è stata sovente considerata come un indirizzo mistico, e la sua psicoterapia come del tutto avulsa dal terreno propriamente scientifico e clinico.
Altri discepoli di Freud, come Ferenczi, Rank, Stekel o Reich, hanno dato luogo o a semplici modificazioni della teoria e della tecnica del Maestro, o a indirizzi e sistemi psicoterapici autonomi. Ferenczi, rimasto peraltro sino all’ultimo un freudiano fedele, introdusse nella tecnica psicoterapica il principio di una maggiore attività comunicativa e collaborativa da parte dell’analista, e l’aperto riconoscimento delle sue stesse emozioni e manchevolezze. Rank sviluppò la sua tecnica partendo dal presupposto che gran parte dei disturbi della personalità fossero dovuti all’impossibilità di superare, con mezzi idonei, quelle situazioni di vita che, dall’infanzia in poi, implicano un distacco e un’accettazione di autonomia, e che hanno come loro prototipo la vicenda traumatica della nascita. L’esperienza psicoterapeutica offre, a suo parere, le condizioni ideali per una “nuova nascita” psichica, diretta e controllata, e per il finale superamento dell’ansia di fronte alla libertà. Stekel sostenne soprattutto la necessità di “forzare” la presa di contatto del paziente con il proprio inconscio, mediante interventi decisi, fondati sull’abilità dell’analista e sulla sua comprensione intuitiva. L’iniziativa è sempre del terapeuta, mai del paziente. Tutto ciò è non solo distante, ma opposto agli insegnamenti di Freud, ed anche all’esperienza psicologico-clinica generale. Perciò i metodi di Stekel, nei loro aspetti originari, sono praticamente abbandonati. Rimangono invece valide talune precise indicazioni di un altro discepolo di Freud, Wilhelm Reich, sulla necessità di considerare e di neutralizzare, nella psicoterapia analitica, certi tratti del carattere, particolarmente se rigidi e troppo difensivi, i quali altrimenti si opporrebbero per lungo tempo a un ulteriore lavoro in profondità, elaborativo e ricostruttivo.
Negli Stati Uniti, la psicologia freudiana è stata particolarmente assoggettata a modificazioni, intese a dare maggior risalto ai fattori sociali e culturali nella formazione della personalità normale o anormale – fattori che secondo alcuni sono stati alquanto trascurati da Freud a vantaggio di quelli biologici. È sorta così la cosiddetta “scuola dinamico-culturale” di psicoanalisi, che ha avuto tra i suoi iniziatori Karen Horney, Harry Stack-Sullivan ed Erich Fromm. Senza entrare nei particolari dei loro singoli sistemi, e attenendoci ai loro denominatori comuni, diremo che sia la formazione, sia la risoluzione dei conflitti nevrotici, sono considerate dalla scuola dinamico-culturale assai più come prodotti, o come interventi, legati a un particolare clima ambientale e sociale, che non come dati fissi ed universali quali possono essere, ad esempio, la funzione del timo nell’accrescimento somatico, o quello del bacillo di Koch nella patogenesi della tubercolosi. Il complesso di Edipo quale è stato postulato da Freud, ossia la situazione centrale per cui il bambino ama il genitore di sesso opposto e osteggia quello di ugual sesso, non è – secondo i “culturalisti” – se non il prodotto particolare di un tipo di società e di civiltà, e non una tappa essenziale e obbligatoria nello sviluppo psichico di qualsiasi bambino in ogni tempo e in qualunque luogo. Partendo da tali premesse, gli psicoterapeuti appartenenti alla scuola in discorso cercano soprattutto di ricostruire le situazioni che hanno determinato nei soggetti reazioni e comportamenti e tratti di carattere inadeguati e dannosi: negazione di propri aspetti, fughe da se stesso, distorsioni del giudizio, contraddizioni, assurdi perfezionismi…: tutto questo ha la sua origine nei primi rapporti con un dato ambiente, e continua nell’oggi, impedendo al nevrotico la propria armonizzazione interiore e con il prossimo, nonché il proprio adattamento nella compagine sociale. La psicoterapia culturale dà scarsa importanza alla vita istintiva, e non considera “genetici”, bensì acquisiti, taluni elementi di fondo della struttura nevrotica. Fa uso di interventi attivi e pedagogici, non è aliena dal proporre spiegazioni e decisioni, e il suo fine ultimo è la formazione di nuovi atteggiamenti caratteriali, che permettano all’individuo di vivere nel miglior modo possibile in seno all’ambiente in cui si trova, o che ha scelto. Alcuni – e fra gli altri il notissimo psicanalista Franz Alexander, fondatore della medicina psicosomatica – hanno perciò accusato la scuola dinamico-culturale di superficialità e di conformismo, oltre che di insensibilità rispetto ai dati della biopsicologia e alle forze della vita istintiva. Lo stesso Alexander, che pure ha capeggiato la scuola di psicoterapia analitica di Chicago, nota per l’atteggiamento attivo e correttivo della sua tecnica, non si è infatti mai discostato dai fondamenti della psicologia freudiana, né dai due perni essenziali – analisi delle resistenze e del transfert – intorno ai quali si svolge la terapia analitica .
In questi ultimi anni, il pensiero europeo ha dato nuovo impulso alla psicoterapia mondiale, con l’avvento degli indirizzi esistenzialistici e della diversa considerazione dell’uomo che la filosofia dell’esistenzialismo ha cercato di proporre. Principali propugnatori della nuova corrente sono psichiatri famosi e di diversa formazione, come i tedeschi Jaspers e Von Gebsattel, gli svizzeri Binswanger e Boss, il francese Minkowski. Per la scuola esistenzialistica, o fenomenologica, la problematica umana non è riducibile a una lotta fra istinto e ragione o tra inconscio e coscienza. L’individualità stessa, anche rinunciando al trascendentalismo, è un dasein, un “esser lì”, che sfida ogni schema meccanicistico o ogni pretesa di stabilire a priori ciò che dev’essere considerato per lui vero, bene, norma. La nevrosi, pertanto, è sempre un problema squisitamente individuale, e occorre affrontarlo secondo la problematica specifica di chi ne soffre – in certi casi mostrandogli l’abisso che separa il suo stile di vita e le sue più vere esigenze da ciò che può ulteriormente sperimentare e divenire, ma in altri indicandogli l’auto-accettazione in profondità come la miglior soluzione dei suoi quesiti e della sua ricerca esistenziale. Il problema centrale dell’angoscia è affrontato sulla base degli insegnamenti di Kirkegaard e di Heidegger – come problema squisitamente umano prima ancora che nevrotico; e la tecnica della psicoterapia esistenziale si potrebbe pertanto chiamare uno studio intenso ed attento dell’uomo hic et nunc, in assenza di coordinate teoriche cui riferirne le dimensioni, e adottando per ognuno il suo unico ed inconfondibile metro. L’uomo – sostengono filosofeggiando gli esponenti dell’indirizzo qui accennato – dev’essere considerato nella sua interezza, alla luce della sua autocoscienza, delle sue facoltà creative, della sua immaginazione, e della sua possibilità – unica tra i viventi – di vedere se stesso come un essere singolo, irripetibile, irriducibile, sospeso di fronte al niente… È ancora troppo presto, s’intende, per poter dire in quale misura, sul piano pratico, tali principi abbiano potuto o possano promuovere veri progressi nel trattamento dei disturbi psichici dell’umanità.
A completamento di questa rassegna dell’attuale mondo psicoterapico – che di anno in anno sembra arricchirsi e modificarsi – è opportuno menzionare quelle psicoterapie che si valgono di mezzi sussidiari per il raggiungimento dei loro fini, anche prescindendo dall’introduzione di medicamenti e da interventi di ordine non psicologico. Fra queste tecniche, una delle più interessanti è il rinnovato impiego dell’ipnotismo, che oggi viene adoperato in modi assai diversi da quelli che furono in voga sino al principio di questo secolo. Attualmente l’ipnosi è considerata soprattutto, in psicoterapia, come un mezzo potente e delicato per superare certe resistenze di struttura, e poter procedere a un’ulteriore esplorazione non forzosa, ma propriamente analitica, dei conflitti del paziente – in guisa non molto diversa da ciò che si crede o si tenta di fare quando si adoperano i sistemi narcoanalitici. Rimane, naturalmente, il problema che imbarazzò a suo tempo Freud – ossia la possibilità di esercitare sul soggetto suggestioni anche involontarie, e di ottenere pertanto da lui un “materiale” non genuino. A ciò non può evidentemente sopperire se non l’abilità tecnica e la consapevole avvedutezza del terapeuta.
Nel campo assai vasto della psicoterapia odierna, e di là dai suoi stessi sottoprodotti e filiazioni, la psicoanalisi freudiana rimane indubbiamente fra gli strumenti più preziosi ed efficaci, anche se il suo impiego prende molto tempo, e richiede l’opera di specialisti che, sebbene in numero crescente, sono tuttora, nel mondo, una élite assolutamente esigua (basterà ricordare che negli Stati Uniti, contrariamente a quanto si suoi credere, gli psicoanalisti riconosciuti non arrivano al migliaio). Beninteso, la tecnica della psicoanalisi classica si è straordinariamente affinata, tenendo conto degli apporti altrui, ma, in primo luogo perché gli stessi analisti l’hanno sottoposta a continue revisioni critiche e a nuove elaborazioni dedotte dall’esperienza. I progressi della psicoterapia psicoanalitica riguardano soprattutto l’accertamento preliminare della struttura psicologica dell’analizzando, con prevalente riferimento alle formazioni difensive e caratterologiche, e alle “resistenze” relative; la maggior considerazione dell’ambiente del soggetto e dei suoi quotidiani problemi di vita; la migliore utilizzazione del transfert, anche nel senso di una valutazione più estensiva di situazioni trasferenziali a più personaggi, nelle quali l’analista non è sempre il primo attore; l’alternanza da parte dell’analista di posizioni d’impassibilità schermografica e d’interventi più attivi; ed infine l’auto-osservazione dell’analista, sempre all’erta di fronte alle sue proprie reazioni conscie ed inconscie. Sebbene egli stesso sia stato a suo tempo accuratamente analizzato, lo psicoanalista, forse più d’ogni altro psicoterapeuta, non dimentica che la chiave d’oro di ogni e qualsiasi psicoterapia è il rapporto da soggetto a soggetto, da uomo a uomo; e sa che se è vero che l’uomo – come disse un antico saggio – è la misura di ogni cosa, occorre che chi esamina gli altri sia anzitutto in grado di scrupolosamente misurare, ben valutare, e freddamente giudicare se stesso.
Emilio Servadio

Note

(1) Nel 1961, il Prof. Emilio Servadio tenne sul “Terzo Programma” della Radio italiana tre conversazioni sulla psicoterapia, e sui suoi recenti sviluppi. L’accresciuto interesse per l’argomento (basti pensare ai vari congressi e simposi che si sono avvicendati negli ultimi due o tre anni) conferisce nuova attualità a tali conversazioni – dirette, beninteso, a un pubblico di persone colte, ma non specializzate. Con il gentile consenso dell’Autore, pubblichiamo in questo numero il testo delle tre conversazioni. (N. d. R.).

(2) Il lettore tenga presente la data di queste radioconversazioni, come precisata in nota 1 (n.d.r.).

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