Psicanalisi e yoga
Ulisse 1961
L’atteggiamento della cultura e delle scienze occidentali di fronte alle teorie e alle tecniche dello yoga ha oscillato profondamente durante mezzo secolo, e le opinioni al riguardo sono ancora molto divise.
Certi studiosi (filologi, orientalisti, psicologi) continuano a considerare lo yoga con un atteggiamento misto di curiosità, di interesse scientifico e di condiscendenza. Altri, il cui numero va aumentando, mostrano un atteggiamento completamente opposto, e giungono a dichiarare che tutto quello che noi, uomini dell’Occidente, abbiamo creduto di fare e di trovare nel campo delle ricerche scientifiche, e specialmente in quello delle investigazioni psicologiche, non è che un procedere a tastoni e una fatica non coordinata, mentre lo yoga è il metodo per eccellenza di cui l’uomo dispone per conoscersi e realizzarsi.
Certi orientali non sono molto più indulgenti verso il nostro pensiero scientifico e la nostra psicologia. In alcune pagine che egli ha creduto di dedicare alla psicoanalisi, Shri Aurobindo (1) scrive che “trova difficile prendere gli psicoanalisti sul serio”, che “non si può trovare il significato del loto analizzando i segreti del fango da cui sorge” e che in genere “la psicoanalisi moderna è una scienza nella sua infanzia, al tempo stesso sconsiderata, maldestra e male abbozzata”.
Tutto ciò è molto netto, ma, io temo, non ha più importanza o più validità delle affermazioni di questo o quel psicologo o psicoanalista per il quale lo yoga non sarebbe che un ammasso di fantasticherie strambe, di esercizi psicofisiologici pericolosi, e di introversione. Il mio modesto avviso è che non si guadagna nulla ad assumere atteggiamenti così estremi, così esclusivisti e così sdegnosi. Il disdegno, al pari dell’entusiasmo, non è che un atteggiamento emozionale, altrettanto lontano dalla freddezza scientifica occidentale quanto dalla calma e dal distacco dello yoga. Invece di scagliarsi giudizi sommari l’un contro l’altro, non sarebbe meglio cercare di valutare, nel modo più obiettivo possibile, le dottrine e i fatti? E’ quello che cercherò non già di compiere, ma di abbozzare, nel poco tempo di cui dispongo.
In primo luogo mi sembra opportuno dire una parola sull’idea che certi studiosi, a somiglianza di Shri Aurobindo, continuano a farsi della psicoanalisi, che essi considerano come una ricerca esclusiva di ciò che vi è nella personalità umana di basso e di sporco. Quest’idea è di per sé assai poco scientifica, perché introduce criteri etici o estetici laddove questi o quelli non hanno assolutamente nulla a che fare. In più, si tratta di un’idea falsa, perché equivale a pretendere che si possa coltivare un terreno senza averlo in primo luogo sterrato e sbarazzato delle erbacce, o a condannare coloro che prendono sul serio questo tipo di lavoro, o a pretendere che essi sono incapaci di fare una qualsiasi altra cosa.
Ogni persona informata sa che lo scopo della psicoanalisi è quello di liberare l’uomo da una serie di apprezzamenti falsi, di ostacoli interiori o di conflitti non produttivi, e di permettergli così una più grande libertà di scelta e di azione. Questo è tutto: non è poco, e non ha nulla di sporco. Rimproverare all’analisi di ignorare le verità superiori o la finalità ultima della vita è altrettanto futile quanto criticare il chirurgo perché non si occupa di ciò che il suo cliente farà con il braccio rimesso a posto, né dell’idea archetipica di braccio, né della posizione di questa idea nell’economia universale. Questo naturalmente non vuol dire che noialtri, psicoanalisti d’Occidente, non abbiamo nulla da apprendere dallo yoga. Io sostengo precisamente il contrario, e lo sostengo da molti anni, perché l’ho detto per la prima volta al 15° Congresso Internazionale di psicoanalisi, nel 1938 (2). Soltanto, io credo che noi possiamo molto apprendere dallo yoga proprio in quanto psicologi, e mi si permetta di aggiungere che, così come non penso che questo o quel sistema filosofico occidentale possa aiutarci, per lo meno direttamente, nel nostro lavoro analitico quotidiano, io mi occupo altrettanto poco, come psicoanalista, di applicarmi a stabilire se e perché il Sahasrara padma chakra ha esattamente mille petali o quale sia la maniera precisa di pronunciare il mantra “pam” che, a quanto pare, gli appartiene. Le mie esigenze, così come i miei debiti, nei riguardi dello yoga sono molto più modeste, più semplici e più concrete.
Parecchi Autori hanno stabilito paralleli ingegnosi tra certi aspetti delle teorie e delle tecniche yoga e i dati e i metodi della psicoterapia psicoanalitica. Ricorderò quelli che mi sembrano specialmente validi ed utilizzabili.
In primo luogo c’è l’idea, comune ai due sistemi, di una psiche in se stessa incosciente, movimentata, e senza coordinazione precisa (citta è sprovvista di coscienza e non può diventare veramente cosciente che a condizione di essersi sbarazzata dei vasana e di essere illuminata da purusha). Nella maggioranza dei casi, secondo la dottrina yoga come secondo la psicoanalisi, l’uomo veramente non pensa: piuttosto, si potrebbe dire che è pensato da qualche cosa che sfugge al suo controllo e che noi possiamo chiamare tanto vasana che “pulsioni dell’inconscio”. Uno dei fini preliminari dello yoga è di ottenere un controllo fondato sulla conoscenza di questo mondo psichico incosciente e questo è anche il compito della psicoanalisi propriamente detta, che, da questo punto di vista, si avrebbe torto di considerare come un metodo esclusivamente terapeutico. Non mi sembra corretto dire, come certi autori, che lo yoga non può paragonarsi alla psicoanalisi perché si applica ad individui sani, tre la seconda è adoperata per curare malati. Di fatto, la psicoanalisi, come la si concepisce oggi, è soprattutto un metodo mediante il quale si trasforma e si riorganizza la personalità psichica totale. E’ evidente che questo lavoro può avere anche, e ha di fatto quasi sempre, aspetti strettamente terapeutici, ma tali aspetti le sono, in fin dai conti, accidentali e non sostanziali. Ciò che è vero, piuttosto, soprattutto in Occidente, ma anche in India (dove io l’ho appresso dalla viva voce di Shri Kuvala Vananda, Direttore del Centro Kaivalyadhama), è che la maggior parte delle persone che vogliono dedicarsi alle pratiche yoga sono dei nevrotici nel senso clinico della parola, dei nevrotici che dovrebbero chiedere aiuto allo psicoanalista invece di accoccolarsi tutti i giorni su una stuoia e cercare di fare esercizi di pranayama o di meditazione; ed io mi domando anche quanti di costoro scrivano saggi o articoli nei quali proclamano che lo yoga è tutto e che la psicoanalisi è nulla…
Allo scopo di riportare poco a poco i conflitti e le spinte dell’inconscio sotto il controllo di un “io” più forte e più stabile, la psicoanalisi, come si sa, adopera delle tecniche di rilassamento, di associazione libera, di appercezione interpretata: tecniche che hanno parecchi punti in comune con certi insegnamenti dello yoga. Uno degli scopi essenziali di queste tecniche è, a mio avviso, quello di mettere in moto e di ottenere una serie di disidentificazioni. Poco a poco l'”io” del soggetto si allontana e si libera da ciò che era diventato egosintonico e ne dispone più o meno ad libitum, così come noi disponiamo di un veicolo sapendo molto bene che noi non siamo il veicolo e che possiamo farne a meno. Per arrivare a questo, bisogna tuttavia passare attraverso uno stadio di riconoscimento di quello che Freud chiama il “territorio estero interno”, i cui rappresentanti ci sembrano talvolta così strani – sia che si tratti di sintomi clinici sia di episodi di sogno – che abbiamo, all’inizio, la tendenza a credere che essi appartengono ad un mondo veramente esterno a noi. Questo stadio, essenziale nella psicoanalisi, è indicato da Patanjali quando dice che l’individuo deve diventare cosciente di se stesso, e che deve combattere l’ignoranza.
E’ possibile, tuttavia, che un sentimento generale l’esistenza e della forza dell’inconscio sia più spontaneo e immediato presso l’indù che pratica lo yoga che presso l’occidentale che comincia a “conoscere se stesso”, e che questa necessità di percepire la realtà del territorio estero interno sia, di conseguenza, meno importante nel primo che nel secondo. In ogni modo le operazioni psichiche che ho cercato di indicare sono molto intuitivamente rappresentate da ciò che accade ad Alice nel paese delle meraviglie, quando Alice, subito prima di risvegliarsi completamente, riconosce che i personaggi che la circondano sono immagini di sogno, e che in fondo essi “non sono altro che un mazzo di carte”.
La disciplina, l’aspirazione sostenuta verso un fine di integrazione, la rinuncia alle soddisfazioni immediate, tutte queste condizioni della pratica yoga si ritrovano mutatis verbis nelle esigenze di un’analisi seria. Evidentemente l’analista occidentale non domanderà al suo cliente di rassegnarsi alla volontà di Ishvara, ma noi sappiamo molto bene che gli ostacoli massimi ad un’analisi provengono da quelle che noi chiamiamo le “difese narcisistiche” che rendono difficile o impossibile un vero “transfert”. E che cosa sono queste difese, se non l’attaccamento del soggetto ad un se stesso cristallizzato, la sua difficoltà a iniziare una disidentificazione e cioè a cominciare a non più amare ciò che in lui non è che errore, sorgente di dolore e illusione, la sua incapacità ad “abbandonarsi” a qualsiasi cosa o a qualsiasi persona?
Si sarà osservato che ho lasciato da parte le questioni psicofisiologiche e neurologiche. Non è che io le ignori o che le ritenga prive di importanza, ma sono sempre più persuaso della “primarietà dello psichico” nello yoga come nella psicoanalisi, come anche dell’impossibilità di ricondurre ciò che è processo interiore a basi anatomiche o nervose, e delle conseguenze che può avere un avvicinamento di questo genere ai problemi che ci occupano. Nel 1940 (3) ho cercato di dimostrare che il Kundalini-yoga è un processo essenzialmente psicodinamico come la sublimazione, e che le modificazioni fisiologiche che implica non ne sono che i riflessi. Come scrivevo allora, e tengo a riconfermarlo oggi, Sir John Woodroffe (4), aveva perfettamente ragione quando rifiutava di ammettere che i “ciakra” potessero essere ricondotti ai plessi nervosi, che “sushumna” e la colonna vertebrale siano la stessa cosa e che Kundalini, come lo credeva il mio compianto amico Dottor Rele (5), possa identificarsi con il nervo pneumogastrico.
Io riconosco la grande utilità delle ricerche fatte da Therèse Brosse sulle correlazioni e le modificazioni fisiologiche inerenti a certe operazioni mentali degli yoghi (6), ma non posso seguirla quando essa pone il problema dei disturbi psicofisiologici nei nostri climi in termini o organici o sociali, lamentandosi che non ai possa curarli in Occidente, né mediante trattamenti organici, né mediante riforme sociali (7). Ha forse la dottoressa Brosse totalmente dimenticato che i disturbi psicosomatici sono di pertinenza della psicoterapia analitica, e che non c’è soltanto lo yoga per trattare un’artrite reumatoide o un’ulcera duodenale?
Il fatto che, come la signora Brosse ha constatato, si possa dimostrare sperimentalmente presso gli yoghi che l’attività psichica controllata determina o influenza parecchie funzioni fisiologiche, non significa che non si possano fare le stesse dimostrazioni nel corso di un trattamento analitico di una ipertensione essenziale o di una neurodermite, anche se i nostri limiti e le nostre possibilità sono più modeste che quelle degli illuminati d’Oriente. E’ abbastanza strano vedere da un lato degli orientali come Rele e, assai prima di lui, Dayanand Sarasvati, cercare di ricondurre lo yoga all’anatomia e alla fisiologia, e dall’altra parte vedere una scienziata occidentale come Therèse Brosse che sembra scotomizzare l’esistenza in Occidente di una psicologia che non si limita ad essere un’ancella della fisiologia, e di una psicoterapia per la quale anche la psiche è qualche cosa più che una espressione letteraria.
Ho detto già troppo, e mi preme ritornare alla psicoanalisi, considerata come tecnica di integrazione umana, e allo yoga, considerato sull’esempio dello yoghi Behanan (8), come una “psicoterapia cosmica”. Potrei ancora trattare del rapporto di transfert che lega l’analista e l’analizzato, e vedere fino a qual punto questo rapporto abbia elementi comuni con quello che si stabilisce tra il guru e il suo allievo. In base alle letture di autobiografie scritte da yoghi, un certo materiale raccolto in India e ciò che mi risulta dalla mia esperienza analitica, io sono portato a credere che in un caso come nell’altro si strutturi un ponte psicologico provvisorio che permette al soggetto di staccarci poco a poco – e non certo ad un tratto, cosa di cui sarebbe incapace – dal passato, e dalle false realtà che lo trattengono.
Più importante ancora è chiedersi ciò che noi psicoanalisti di Occidente, che non vogliamo racchiuderci in una dottrina bella e fatta e ne varietur , benché siamo rispettosi del nostro particolare darsana, possiamo apprendere dallo yoga.
Ebbene, a mio avviso, ciò che noi abbiamo di più immediato da apprendere è una migliore utilizzazione delle tecniche di rilassamento, del controllo del ritmo respiratorio e del pensiero guidato. E’ curioso constatare sino a qual punto tali questioni siano state finora neglette o trascurate nelle nostre riviste speciali. Vi si prendono quasi sempre le associazioni libere, e ciò che dice il soggetto, prima facie, come espressione valida e indiscutibile della sua osservanza della regola analitica. Che egli sia più o meno rilassato, che respiri più o meno profondamente e secondo quale ritmo, che egli senta o no alcune parestesie, che ciò che dice passi per questa o quest’altra elaborazione sottile del pensiero alla sua nascita…: tutto questo fa molto raramente oggetto di studio o di analisi e solo molto recentemente alcuni analisti si sono occupati delle posizioni e dei gesti diversi del paziente durante il trattamento.
Evidentemente non è possibile controllare, e meno ancora insegnare, ciò che non si conosce per esperienza diretta, ed è perciò che io penso che Geraldine Coster ha ragione quando scrive nel suo libro, semplice, ma pieno di buon senso (9), che “l’analista dell’avvenire dovrebbe essere qualcuno che conosca sperimentalmente qualche cosa dei processi di meditazione e delle vie per ottenere la padronanza della propria psiche”.
Questo permetterebbe probabilmente di superare in un certo modo alcune difficoltà che riguardano il training analitico ed anche la tecnica dell’analisi, e di uscire cosi da una situazione che fa sì che la tecnica analitica la più raffinata non possa paragonarsi sotto un certo profilo se non ai gradi preliminari dello yoga, perché, in fin dei conti, la parola “libertà” ha un significato ben diverso a seconda che la si riferisca all’occidentale che ha avuto un’analisi riuscita o a colui di cui si può dire, con la Svetasvatara Upanishad che “come uno specchio fangoso risplende di nuovo dopo una pulizia appropriata, così l’anima racchiusa nel corpo partecipa della sua finalità vera e si libera dall’angoscia dopo aver scoperto la sua vera natura” (10). Il che non vuol dire, insisto su questo punto, che si debbano abbandonare le proprie vie e i propri metodi in favore di un darsana che non è il nostro. Jung (11) ha molto saggiamente messo in guardia lo studioso occidentale contro questa tentazione e Zimmer ha scritto, con la sua autorità testabile, che “noi debbiano ritrovare tutto, ma per mezzo di forme nuove di espressione che non sono state ancora elaborate, perché, quando tentiamo di utilizzare le tecniche antiche e i loro simboli, noi andiamo incontro ad un insuccesso certo… La verità appare differentemente nei differenti Paesi, nelle differenti età, secondo i materiali viventi con cui i suoi simboli sono stati foggiati” (12).
BIBLIOGRAFIA
(1) AUROBINDO: Les Bases du Yoga, Paris, 1945.
(2) E. SERVADIO: “considérations psychanalytiques sur le Yoga” (Communication au XV Congrès International de Psychanalyse, Paris, 1938). Testo inedito.
(3) E. SERVADIO: “Psycho-Analysis and Yoga”, in “Bulletin of the Bombay Medical Union”, Vol. VII, n° 2. Jan. 20.1940.
(4) A. AVALON (Sir John Woodroffe): The Serpent Power, Madras, 1924.
(5) V.G. RELE: The Mysterious Kundalini, Bombay, 1927; n. ed., 1939.
(6) Th. BROSSE: La science expérimentale du Yoga et le problème de la civilisation contemporaine, in Approches de l’Inde (sous la direction de J.Masui), Paris, 1949.
(7) Th. BROSSE: Psychophysiologie de Yoga et problèmes d’hygiène mentale, in Yoga; science de l’homme intégral (sous la direction de J.Masui), Paris, 1953.
(8) K.T. BEHANAN: Yoga: a Scientific Evaluation, New York, 1937.
(9) G. COSTER; Yoga and Western Psychology, London, 1934.
(10) Citato da E. ABEGG: “Le Origini dello Yoga”, in “Rivista Ciba”, Anno IV, n°26, Milano, ottobre 1950.
(11) C.G. JUNG: “Le yoga et l’Occident”, in Approches de l’Inde, cit.
(12) H. ZIMMER: Philosophies of India, New York, 1950.