Moderne correnti di psicoanalisi
Psiche Anno II, n°5-6-7 mar-apr- mag.1949
Riportiamo, nel testo integrale, la lettura recentemente fatta alla radio, nella rubrica “Università Internazionale Guglielmo Marconi “, dal Prof. Emilio Servadio sugli indirizzi attuali della psicoanalisi.

Sebbene la psicoanalisi sia ormai saldamente organizzata, tanto come dottrina che come metodo, si son venuti determinando in tutta la sua storia, e tuttora si verificano, non pochi approfondimenti e revisioni. Ciò non deve sorprendere, e non va inteso come segno indicatore di minor consistenza scientifica in confronto ad altre discipline. Nessuno pensa a mettere in dubbio la legittimità della fisica per il fatto che le teorie e le scoperte si susseguono in questa scienza con un ritmo notevolmente celere; né per il fatto che non tutti i fisici sono d’accordo sull’interpretazione di questo o quell’aspetto fenomenologico del mondo degli atomi e degli elettroni.
Nella rassegna che stiamo per fare delle varie correnti che oggi coesistono in seno alla psicoanalisi freudiana vogliamo prescindere, beninteso, da quegli indirizzi che pur avendo preso le mosse dalla psicoanalisi, se ne sono poi grandemente allontanati e sono divenuti, in pratica, cose del tutto diverse. Non prenderemo quindi in considerazione né la psicologia di Jung né quella di Adler, e neppure le sottospecie dottrinali che si richiamano ai nomi di Rank o di Stekel. E’ noto che dopo ognuna di queste scissioni, la psicoanalisi freudiana ha continuato il proprio cammino e si è anzi ulteriormente sviluppata e consolidata, laddove alcuni degli anzidetti indirizzi scissionistici hanno avuto vita singolarmente breve. Quelli che qui c’interessano sono i punti di vista e i criteri pratici degli psicoanalisti, cioè di coloro che pur nelle loro divergenze, talora assai sensibili, si rifanno sempre e comunque ai cardini dottrinali stabiliti da Freud.
Orientamenti e ricerche di singolare importanza fanno capo, da qualche anno, alla cosiddetta «scuola inglese » di psicoanalisi. Tale scuola ha come suoi principali esponenti due illustri psicoanalisti: Melanie Klein ed Ernest Jones. La signora Klein ha al suo attivo profonde innovazioni nella tecnica della psicoanalisi infantile, e i risultati ottenuti con il suo metodo hanno portato a conclusioni che molli considerano addirittura rivoluzionarie. Del dottor Jones, celebrità mondiale, basterà ricordare che ha retto per lunghi anni, e tuttora regge, le sorti dell’Associazione psicoanalitica internazionale, in qualità di Presidente.
La « scuola inglese » ha avuto anzitutto il merito, a nostro avviso, di tenere nel massimo conto l’esistenza e l’azione, nel bambino come nell’uomo, degli istinti distruttivi. Questi istinti erano stati nettamente individuati da Freud sino dal 1916, ma è doveroso riconoscere che la teoria e la pratica della psicoanalisi erano ormai prevalentemente imperniato su ciò che si sapeva degli istinti dell’Eros. Sui gruppi di istinti antagonistici a questi, le idee non erano molto chiare neppure nella mente pur lucidissima di Freud. La « scuola inglese », sulla base soprattutto di molti reperti di Melanie Klein, ottenuti dalla psicoanalisi di bambini anche in tenera età, ha messo in luce le fortissime aliquote di distruttività che caratterizzano la vita psichica infantile sin dai primi giorni di vita, ed ha mostrato la funzione decisiva ditale distruttività sia nelle nevrosi infantili, sia nell’eziologia delle nevrosi dell’età adulta, sia, infine, nella formazione della personalità anche normale.
I frutti ottenuti in questa esplorazione psichica, diretta o indiretta, della prima età, persuasero gli esponenti della « scuola inglese» della verità di quanto pensava Karl Abraham: che cioè per ottenere migliori e più completi risultati analitici, sia in sede esplorativa, sia in sede terapeutica, convenisse penetrare più profondamente nell’inconscio e nel passato individuali. L’influenza di Abraham è palese persino nel linguaggio che gli psicoanalisti della e scuola inglese e sogliono adoperare.
Secondo le formulazioni di Melanie Klein, accettate oggi da un gruppo non indifferente di analisti britannici, i meccanismi fondamentali dell’Io infantile sono l’introiezione e la proiezione, ossia da un lato l’incorporazione psichica di oggetti parziali o totali, che possono essere sentiti come «buoni » o «cattivi»; dall’altro la loro esternalizzazione, e l’attribuzione a essi di caratteristiche e di impulsi benevoli od ostili, che in realtà appartengono all’inconscio del soggetto. Così, ad esempio, la mammella che non dà latte, o lo dà insufficientemente, è oggetto dell’aggressione del bambino, il quale per proiezione la considera «cattiva ». D’altra parte, la mammella è anche il principale oggetto del desiderio del bambino, e questi,, nella sua fantasia, tende ad incorporarla, a introiettarla. Il bambino, dunque, avrà a un certo punto dentro di sé – psichicamente parlando – la mammella materna, nei suoi aspetti « buoni » come nei suoi aspetti «cattivi ».
Nel primo anno di vita, secondo la « scuola inglese » di psicoanalisi, il bambino passa attraverso fasi psicotiche, caratterizzate da proiezioni di fortissime cariche aggressive sul mondo esterno (per cui si determina una condizione analoga alla paranoia) e, alternativamente, da introiezioni di oggetti « cattivi » con effetto paragonabile alla depressione melancolica. Melanie Klein, nei suoi ultimi lavori, ha insistito su questa posizione melancolica nucleare, che essa chiama la « Posizione depressiva » e che verrebbe attraversata dal bambino intorno al sesto mese, per riattivarsi eventualmente in varie altre epoche dell’infanzia e dell’età adulta. La terapia psicoanalitica consiste fondamentalmente nello spezzare il circolo vizioso di queste introiezioni e proiezioni, attraverso l’internalizzazione di un oggetto decisamente buono: l’analista.
Le fasi di sviluppo istintuale, e i relativi conflitti psichici infantili, descritti da Freud (ad es., la paura d’evirazione) appaiono alla « scuola inglese » da riferirsi a tappe già abbastanza evolute della vita psichica: mentre i termini essenziali di quelle fasi e di quei conflitti sarebbero da ricercarsi cronologicamente assai prima. Il « complesso edipico », ad esempio, secondo la definizione che noi stessi abbiamo avuto occasione di darne aderendo in questo alle vedute dei colleghi britannici, trova il suo nucleo nella dicotomia dell’oggetto « buono » e dell’oggetto « cattivo», che infine, nella classica descrizione freudiana, s’individua nelle due figure «totali » dei genitori.
Un ulteriore ragguaglio sulla «scuola inglese» non ci è consentito date le esigenze di questa rassegna. A noi pare che sebbene ancora sub indice per vari rispetti, tale corrente abbia coraggiosamente iniziato lo scandagliamento delle zone più recondite e misteriose dell’inconscio, cercando di fornirci i mezzi per capirne gli sconcertanti aspetti, e mettendoci in grado al tempo stesso di adoperare le nostre nuove conoscenze per ottenere più decisivi risultati nelle nostre analisi profonde.
A tutt’altri criteri si ispira un gruppo di psicoanalisti americani, tra i quali figura Karen Horney con pochi altri. Secondo tale corrente, è stata data in psicoanalisi troppa importanza all’inconscio e all’infanzia. Ciò che soprattutto conta è il comportamento dell’analizzando, sono le sue reazioni nel mondo reale e attuale: rivalità, gelosie, esigenze di lavoro, mancanza di sicurezza, ecc., creerebbero nel nevrotico una serie di sintomi protettivi, poiché il suo Io; non si sa difendere diversamente, ansioso com’è l’individuo di affermarsi, e di mantenere al tempo stesso una situazione d’infantile dipendenza. Come è noto, l’interpretazione della nevrosi quale tecnica usata dall’Io per trovare un modus vivendi nei confronti di sgradite situazioni reali ed esterne, è uno d’ai capisaldi della « psicologia individuale » di Adler. Contrariamente ad Adler, però, Karen Horney, Franz Alexander e altri psicoanalisti americani non trascurano l’inconscio, e il loro modo di formulare i problemi è di gran lunga più vicino alla psicoanalisi classica che non alla psicologia adleriana.
La «scuola americana» – se di scuola si può parlare – ha rivolto particolare attenzione al problema dell’abbreviamento degli interventi analitici. Secondo una definizione data da Alexander, la psicoanalisi avrebbe, superato quattro fasi successive: quella dell’ipnosi catartica, quella della suggestione allo stato di veglia quella delle associazioni libere, quella delle nevrosi di transfert; e meglio dovrebbe, oggi, chiamarsi « educazione emozionale ». Sostengono Alexander, e coloro che ne accettano le vedute in questo settore, che occorre adottare un « principio di flessibilità », per cui la terapia analitica potrebbe e dovrebbe discostarsi non poco dagli schemi freudiani. A seconda dei casi, le sedute avvengono saltuariamente, persino mensilmente; non si chiede necessariamente al paziente di sdraiarsi durante l’ora analitica; nelle sedute viene dato, il massimo rilievo ai problemi attuali del nevrotico in rapporto al suo ambiente. Manifestazioni liminari di questa tendenza e dinamica » e sbrigativa son date dai nuovi metodi psicoterapici che fanno uso di narcotici (come la cosiddetta narcoanalisi); e ne é esempio anche il rinnovato interesse per l’ipnosi, che dopo tanti anni dai primi esperimenti di Freud viene nuovamente adoperata allo scopo di «forzare » una abreazione e ottenere rapidamente il contatto con i contenuti psichici inconsci.
Sui risultati terapeutici di questi indirizzi vi sarebbe, per lo meno, molto da discutere; e dal punto di vista teoretico non si può dire che le esposizioni di certi analisti americani diano l’impressione di grande profondità. Tuttavia, non v’è dubbio che il problema dell’abbreviamento degli interventi terapeutici sia più che mai attuale in psicoanalisi, e non è piccolo merito degli studiosi americani quello di aver compiuto alcuni tra i più energici sforzi verso tale difficile obiettivo.
Di una terza corrente è degna rappresentante Anna Freud, figlia del fondatore della psicoanalisi, e non c’è quasi bisogno di dire che si tratta dell’indirizzo che si rifà più direttamente agli insegnamenti freudiani. Principale preoccupazione di Anna Freud, e di vani analisti appartenenti a quella che si potrebbe chiamare la «scuola di Vienna », è la psicologia dell’Io, quale integrazione necessaria della psicologia dell’Es che costituì il primo, grande contributo dottrinale della psicoanalisi alla psicologia generale. Anna Freud, a differenza di Karen Horney, non considera però l’Io nei suoi soli rapporti col mondo esterno, o poco più: essa si pone il problema dell’Io principalmente per ciò che riguarda i rapporti fra la sfera dell’Io e quella degli istinti, e le relative interazioni. Particolarmente interessante, a questo riguardo, è lo studio dei vari sistemi con cui l’Io atteggia e si modifica rispetto agli impulsi istintuali: ossia, di quelli che Anna Freud chiama i «meccanismi di difesa» dell’Io – meccanismi i quali sono di regola del tutto inconsci e costituiscono i « modi » fondamentali, le note caratteristiche psicologiche dell’individuo anche di fronte agli oggetti e alle situazioni esteriori, ai suoi stati interni di euforia o di angoscia, ecc.
Tali ricerche hanno trovato interessanti integrazioni teoretiche nelle tesi di Paul Federn sulla struttura dell’lo e sulla variabilità dei suoi confini.
Accanto ed oltre agli anzidetti indirizzi, che assommano quanto di più vivo si dà oggi nella dottrina e nella prassi della psicoanalisi, possiamo menzionare alcuni contributi che non rappresentano vere e proprie « correnti », ma che hanno avuto, ed hanno tuttora, un valore euristico e di orientamento. Nella tecnica analitica si alternano le esigenze alquanto « estremistiche » di coloro che vorrebbero un’analisi sistematica, « pianificata » (e tra questi figura in particolar modo Wilhelm Reich), con quelle di chi ritiene che per la psicoanalisi pratica ci si debba fondare esclusivamente, o quasi, sull’intuito, sulle corrispondenze immediate e sorprendenti fra l’inconscio dell’analizzando e quello dell’analista: su un rapporto, cioè, che lascia ben poco margine per il ragionamento e per la logica. Come avviene, la verità sta ancora una volta nel mezzo, e ciò è risultato fra l’altro da un’ampia inchiesta sulla tecnica analitica, promossa alcuni anni or sono da Edward Glover tra gli psicoanalisti di Inghilterra.
Più importanti le estensioni della psicoanalisi a campi e forme nosologiche le quali sembravano sino a poco tempo fa del tutto precluse: ad esempio, talune sindromi cosiddette psicosomatiche, come l’ulcera gastroduodenale e l’asma branchiale.
Più recenti ancora le applicazioni della tecnica analitica, convenientemente modificata, a talune forme di psicosi. Risultati sorprendenti sono stati ottenuti nell’analisi delle sindromi maniaco-depressive, e, da ultimo, anche in casi di schizofrenia. E’ di pochi mesi, fa la pubblicazione di una monografia della dottoressa Sechehaye, di Losanna, sulla guarigione completa di una schizofrenia mediante l’applicazione di un metodo terapeutico fondato sulla psicoanalisi, che l’Autrice chiama « realizzazione simbolica ».
Anche da questo rapido, e necessariamente incompleto excursus, risulta chiara l’enorme vitalità della psicoanalisi, che superato il primo cinquantennio di vita si riconferma, oggi più che mai, ricca di realizzazioni e fervida di promesse.

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