Falso in arte fa sorridere come il discorso di un pappagallo
Una delle ragioni del disprezzo al quale va soggetta un’opera che si scopre falsificata, è che viene a mancarle il messaggio dell’artista, ossia la verità
Il Tempo 10/03/1961

Con « sentimenti misti » di sorpresa e d’indignazione, alcuni milioni di American hanno appreso che tre famose statue etrusche, ammirate per trent’anni dai visitatori de Metropolitan Museum di New York, e considerate fra i « pezzi » più importanti di quella importantissima istituzione, non erano che abili falsificazioni dovute a tre artigiani di Roma. In Italia la notizia come si può immaginare non ha mancato di suscitar sorrisi divertiti e maliziosi commenti ai danni di colori che hanno sborsato alcuni diecine di milioni per l’acquisto di opere ritenute sommi capolavori d’arte antica, e che oggi sono state assai modestamente ribattezzate « manufatti artigianali del XX secolo ». Questo non è, beninteso, che un capitolo nel grande libro delle falsificazioni archeologiche ed artistiche: libro inizia chissà quanti secoli fa, e che presumibilmente non sarà mai terminato. Altri celebri capitoli – per citare soltanto qualche caso recente – sono costituiti dalle sculture quattrocentesche del nostro Alceo Dassena, che ad insaputa dello scultore furono vendute prezzi altissimi come autentiche, e trassero in inganno ch’esse, periti di larga fama e direttori di musei. Noi stessi avemmo occasione di visitare nel 1955, la grande mostra parigina intitolata Il falso nell’arte e nella storia (precorritrice di quella aperta in questi giorni a Londra presso il British Museum), e di ammirare e fra l’altro, i famosi falsi Vermeer, eseguiti a partire dal 1934 da un pittore olandese che si riteneva misconosciuto, Han van Meegeren. Uno di questi, I pellegrini di Emmaus fu acquistato per 520.000 fiorini, nel 1937, e donato alla Galleria reale di Rotterdam. Altri, durante la guerra, attrassero l’interesse di Goering e uno di essi, Cristo e la parabola dell’Adultera, fu acquistato da lui per un milione e 650.000 fiorini… Oggi, gli esperti mostrano con sicurezza i segni indicatori dei suddetti falsi: ma allora, ci cascarono praticamente tutti.

Antico problema

Inutile dire che nella predetta esposizione figurava anche – e al posto d’onore – la celeberrima Tiara di Saitaferne (forse il falso archeologico-aritstico più noto della storia). D’oro massiccio, finemente cesellata con motivi in rilievo rappresentanti scene dell’Iliade, iscrizioni greche eccetera, la tiara fu attribuita al re scita Saitaferne, vissuto tre secoli avanti Cristo, e acquistata, nel 1896, per l’allora enorme somma di 200 mila franchi. La sala del Louvre in cui fu esposta attirò innumerevoli visitatori. Che si trattasse di una falsificazione malgrado i pareri dati dai più illustri competenti, fu scoperto sette anni dopo. L’autore era un abile incisore di Odessa, certo Rouchomovski.
Secondo un catalogo ufficiale del Louvre, esistono al mondo 61 copie « ufficiali » della Gioconda di Leonardo.
Pochi sanno che non meno di venti pitture del genere, con le denominazioni di « copia », « attribuzione », « maniera di… » eccetera eccetera, si trovano ancor oggi in musei e gallerie private, un po’ in tutto il mondo (vi sono Gioconde a Baltimora, Innsbruck, Madrid, Montreux, Northampton, Londra, Nev York… e naturalmente anche a Roma).
La questione dei falsi in arte riguarda e interessa, ben si comprende, numerose categorie di persone: dai critici agli antiquari, dai mercanti ai direttori di musei, dai mecenati alle compagnie d’assicurazione, dai lestofanti… all’Interpol. Ma interessa anche gli psicologi, e per parecchie ragioni. La minore fra queste è la relativa pluralità di motivazioni che può spingere un falsificatore ad agire. Non sempre, infatti, abbiamo a che fare con l’intenzione esclusiva e cosciente di spillar denaro al prossimo. Dossena, per esempio, era un uomo onesto che non si sognava di spacciar per vere le sue prodigiose imitazioni: ma il suo mondo artistico interiore era irrimediabilmente inattuale, come lo sarebbe quello dl un musicista che pur vivendo fra noi non riuscisse a comporre se non nello stile di un Frescobaldi, o di un Carissimi. Il caso di van Meegeren è diverso: questo straordinario falsificatore fu spinto sulla sua particolare strada da una profonda ostilità rivendicativa contro coloro – critici e specialisti – che avevano giudicato men che mediocri i suo dipinti originali. Falsificando lo stile di un maestro celebri quale Vermeer, e traendo in inganno schiere di esperti. Egli volle indirettamente dimostrare quanto poco tutti costoro avessero il diritto di «giudicare » la sua pittura, o i quadri altrui… Altre motivazioni possono esser quelle dell’amabile scherzo tra amici, o della beffa ridanciana di larga risonanza, come di chi espose tempo fa, sotto il nome (inventato) di un esotico «astrattista», alcuni quadri eseguiti da un… quadrupede, alla cui coda era stato solidamente legato un pennello.
Ma il problema più interessante per lo psicologo è quello dell’improvviso scadimento estetico di un’opera che fino al giorno prima aveva commosso e rapito schiere d’intenditori e di ammiratori. Perché – vien fatto di chiedersi – la stessa statua, lo stesso quadro che sino a ieri ci procurava un’intensa emozione di ordine artistico, non provoca in noi se non un’alzata di spalle, o un’occhiata divertita, dal momento in cui abbiamo appreso che si tratta di un manufatto artigianale del XX secolo? Che cosa è cambiato nelle tre ammiratissime statue etrusche del Museo Metropolitan? Non sono forse tuttora i tre « pezzi » che hanno mandato in estasi centinata di migliaia di persone per un paio di generazioni? O dobbiamo forse pensare che il valore artistico di un’opera sia indissolubilmente legato al suo valore commerciale?
(Ma non si potrebbe sostenere questa tesi neppure per un istante, sol che si pensi all’assoluta non commerciabilità di molte opere d’arte o, viceversa, all’appassionata ammirazione di certuni per quadri o sculture che quasi nessuno apprezza e che nessun museo, almeno per ora, si sogna di acquistare.)
La questione è, nell’insieme, piuttosto grossa, perché equivale in sostanza a chiedersi che cosa ci commuova e ci affascini quando contemplo un prodotto artistico. Lungi da noi l’intenzione d’immischiarci nelle complesse discussioni che tale domanda, da Aristotele in poi, ha sollevato. In sede propriamente psicologica, tuttavia non riteniamo fuori luogo osservare che uno – per lo meno – dei fattori dell’anzidetta commozione è quello della comunicazione, del messaggio che ogni opera d’arte ci trasmette. Con i segni, con i volumi, con i colori come con le parole – l’artista vuol dirci qualche cosa: e il modo in cui ci comunica la sua esperienza, la sua emozione, la sua visione della vita, può suscitare in noi risposte che vanno dalla più tenue alla più vibrante ed intensa.

Forma svuotata

Ma tale comunicazione, ma tale messaggio, debbono essere autentici – e noi, in genere, li presumiamo tali: nessuno, andando a visitare una mostra di pittura, dubita per solito che i quadri firmati Carrà o Morandi o Sironi non siano discorsi veri di quei veri pittori. E ci abbandoniamo fiduciosi, e ci apriamo di buon grado a tali elevatissime trasmissioni da uomini a uomini e, vorremmo dire, da anime ad anime. Così potremmo ascoltare una voce gradita e autorevole dirci, da dietro un paravento, importanti parole, e formativi concetti.
La scoperta improvvisa del falso potrebbe paragonarsi alla constatazione che dietro il paravento non c’è un saggio, non c’è un poeta, bensì… un pappagallo, che ha imparato Dio sa come una serie di belle parole e di ben tornite frasi, sotto le quali non c’è che il vuoto. Dov’è il messaggio? Dov’è la comunicazione? A chi potremmo, anche volendolo, far fede da ora in avanti?
A nostro avviso, è questo uno dei motivi psicologicamente più importanti della caduta estetica del prodotto artistico di cui sia stata accertata la falsità.
Ecco perché gli occhi del guerriero etrusco del « Metropolitan » ci appaiono, oggi, irrimediabilmente fissi e vacui, come se una misteriosa operazione avesse, improvvisamente sottratto a quella formidabile testa il pensiero.
Emilio Servadio

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