Realtà psichica e realtà obiettiva
Comunicazione presentata al XVIII Congresso internazionale di psicoanalisi, Londra, 1953.
Rivista di Psicoanalisi n.2 – 1955

Più di una volta è avvenuto che un paziente, al termine di un trattamento psicoanalitico, dicesse che “vedeva il mondo con altri occhi”; o, in altre parole, che a seguito dell’analisi era avvenuta una chiarificazione nel suo modo di vedere le cose. In termini psicoanalitici, diremmo che si era verificato in lui un mutamento, il quale aveva avuto effetto anche sul sistema P-C.
Questa concetto è stato espresso in vari altri modi. Potremmo dire che il paziente ha progredito da livelli psichici ancora in parte dominati dal principio del piacere-dispiacere verso una attività psichica in cui è più saldo il principio della realtà; o che vi è stata in lui una evoluzione dal pensiero magico verso il pensiero razionale; o, secondo la terminologia oggi prevalente negli Stati Uniti, che il paziente si è “aggiustato” nei riguardi dell’ambiente e della realtà.
Queste, ed altre consimili definizioni, presuppongono una concezione della “realtà” quale si è venuta delineando nel pensiero filosofico occidentale da Aristotele in poi: concezione che ha dominato l’epistemologia dell’Ottocento, e che ancor oggi è il tacito presupposto di ogni attività scientifica, compresa, almeno in linea di massima, quella psicoanalitica. Tanto le psicosi quanto le nevrosi sono state definite, analiticamente, in funzione di una “realtà” intesa come “ciò che sta al di fuori” del soggetto. Per lo psicotico, si suol dire, il contatto con tale realtà è interrotto, o ridotto ai minimi termini; per il nevrotico, tale contatto è disturbato da fantasie consce od inconsce, che i comuni rapporti oggettuali non riescono a modificare.
Sennonché, questo modo di definire la “realtà” è stato largamente superato e smentito da tutto il pensiero filosofico moderno, ed è contraddetto da taluni concetti-base della stessa psicoanalisi. È superfluo ricordare le tappe della critica del concetto di “realtà”: critica svoltasi, in filosofia, a partire da Kant e Fichte; sino all’idealismo e all’esistenzialismo. Una “realtà” a sé stante e indipendente da un soggetto che la pensi ed essa stessa impensabile. E dato che non si può concepire alcuna realtà se non attraverso operazioni mentali, la sola realtà di cui possiamo con sicurezza parlare è una realtà mentale. Ciò, d’altronde, corrisponde ad alcuni concetti psicoanalitici sulle cui implicazioni gnoseologiche non si è forse abbastanza riflettuto. Ricorderemo, in primo luogo, l’equipollenza, già chiaramente riconosciuta da Freud, di fantasie infantili, e di traumi effettivamente occorsi, nella psicogenesi di varie nevrosi. In secondo luogo, teniamo presente che quando parliamo di interessi oggettuali siamo troppo spesso inclini a dimenticare un fatto abbastanza ovvio, che cioè la carica psichica oggettuale si rivolge non già agli oggetti, ma alle loro rappresentanze intrapsichiche, le quali, a loro volta, sono parte del soggetto psichico: cosicché in ogni caso, anche le cariche psichiche oggettuali si risolvono in manifestazioni normali di narcisismo secondario. È ciò che Marjorie Brierley esprime allorché scrive: “… even in the case of the most sharply defined object-relationship, the objective constituent of experience is as subjective as an object identified with the self” (6).
Se, dunque, non possiamo più correttamente contrapporre la situazione del nevrotico a quella del non nevrotico definendo tale contrapposizione in termini di minore o maggiore adattamento ad una “realtà” estranea al soggetto, ci è giocoforza affrontare il problema delle “realtà psichiche” dell’uno e dell’altro, dato che è pur necessario giustificare anche in sede teoretica una distinzione sulla quale si basa, in sostanza, tutto il nostro lavoro psicoanalitico.
In un suo saggio (4), Vanda Weiss ha descritto vari casi in cui appariva evidente il primeggiare della fantasia su quella che per comodità di espressione continueremo a chiamare la considerazione e l’accettazione della realtà. Dopo aver mostrato che tale fenomeno si verifica, in grado maggiore o minore, anche negli individui considerati normali, questa Autrice conclude che esso denota una non raggiunta maturità dell’Io, condizionata da un arresto o da una regressione ad una fase infantile; e che, pertanto, esso è indizio di narcisismo anormale. La differenza tra il bambino e il nevrotico da un lato, e, dall’altro, gli individui che hanno raggiunto una sufficiente coerenza rispetto all’esame della realtà, consiste, secondo Vanda Weiss, nel fatto che questi ultimi mettono le loro fantasie al servizio della realtà e che tali fantasie sono il presupposto della loro intraprendenza, e della loro possibilità di raggiungere soddisfazioni “reali”.
Date le nostre premesse, le anzidette definizioni e distinzioni non possono appagarci. Appare, in esse, costante il presupposto realistico-aristotelico, di cui Vanda Weiss non pensa neppure a discutere la validità. Per mantenere la distinzione e necessario, a mio avviso, abbandonare, come quadro di riferimento, la impensabile “realtà” a sé stante, e riferirci non già, come si fa abitualmente, a quella che Spinoza chiamava la natura naturata, bensì alla natura naturans, la sola concettualmente legittima: ossia, ad un ambiente pensante, al pensiero attuato in esseri viventi.
In un individuo ipoteticamente isolato da altri individui, e che, abbandonato alla nascita in un deserto, avesse potuto miracolosamente sopravvivere, il problema della nevrosi o della normalità psichica così come l’intendiamo non si potrebbe porre; e questo, non tanto perché – secondo il pensiero di talune scuole (Adler, Horxuy, Stack Sullivan) – la nevrosi sia un inadattamento a una compagine sociale; quanto perché l’esistenza o meno di una nevrosi non si può definire se non in termini interpersonali e interpsichici, cioè di “comunicazione” – prescindendo dunque da una qualsiasi “realtà” fisica o ambientale postulata come esterna ed immutabile. Il problema della realtà psichica dell’anormale o del normale deve dunque ridefinirsi in funzione dialettica rispetto ad un continuum totale di realtà psichica (la sola ammissibile), e alla possibilità minore o maggiore di istituire con ed entro tale continuum una simbiosi ed un metabolismo psichico soddisfacenti.
Nei confronti di questo continuum la posizione rispettiva dello psicotico, del nevrotico e del cosiddetto “normale” è schematicamente abbastanza chiara. Lo psicotico è paragonabile a una porzione di rete elettrica in cui l’elettricità non circoli più; nel nevrotico la corrente è quasi sempre in corto circuito; nel normale la corrente circola liberamente, e la sua porzione di rete non può quindi fondamentalmente distinguersi da un’altra porzione.
Usciamo di metafora, e consideriamo la situazione del singolo. Come ho avuto occasione di mostrare nella mia introduzione all’edizione italiana dell’opera “Inibizione, sintomo ed angoscia” di Freud, il problema psicologico fondamentale dell’uomo è quello della conciliazione fra unità e pluralità – conciliazione che si ottiene a prezzo di un minimum di angoscia esistenziale ed operativa. L’individuo normale è quello che mette in opera taluni meccanismi difensivi, in modo tale da garantirgli, ad un tempo, un certo isolamento psichico, e la possibilità di “comunicare” con altre unità psichiche, empiricamente avvertite come separate ed esterne. Nel nevrotico, come sappiamo, i meccanismi di difesa funzionano male, e il risultato è che le sue “comunicazioni” sono imperfette e insoddisfacenti, e comunque condizionate da un “prezzo d’angoscia” troppo alto. Ma vi è di più. Le stesse difese psichiche protettive in atto nel “normale” impediscono a questi di aiutare, pur volendolo, il nevrotico a stabilire nuove, migliori e meno angosciose comunicazioni: così come un corpo più o meno bene avvolto con materiale isolante non può essere adoperato per modificare una situazione di corto circuito, e per ottenere una normale circolazione di elettricità laddove questa non si svolge. Ecco perché, in generale, le persone che stanno abitualmente in contatto con i nevrotici non riescono, anche se si tratta di persone normali, ad ottenere in essi alcun cambiamento apprezzabile e permanente. Né questo può avvenire attraverso modificazioni artificiali della “realtà” empirica, poiché ciò equivarrebbe a pretendere di curare un daltonico mutando per un certo tempo i colori degli oggetti che lo circondano.
Qui si pone la figura dell’analista quale “mediatore psichico”. La sua posizione è alquanto paradossale, poiché egli dev’essere, ad un tempo, “neutrale”, e capace di sintonizzarsi con quella realtà psichica del nevrotico che è aliena tanto alla coscienza di questi quanto a quella di chi abitualmente lo circonda. Non certo a caso tutto l’orientamento recente della tecnica analitica è nel senso dell’analisi delle difese e del transfert. Lo scopo di tale analisi non può essere se non quello di permettere o di creare “comunicazioni”: di istituire dialettiche al posto dei confronti adialettici di tesi e di antitesi propri al sistema psichico primario; di facilitare e promuovere l’accettazione dell’“altro” a chi, angosciosamente, tendeva costantemente a chiudersi entro l’“uno”.
L’analista è dunque colui il quale, avendo realizzato in se stesso la non comune facoltà di potere, entro certi limiti, abbandonare o mantenere in atto i suoi normali meccanismi di difesa, che nell’uomo medio non nevrotico si svolgono in modo tanto soddisfacente, quanto inalterabile e automatico, è in grado di porsi come regolatore e integratore del funzionamento imperfetto dell’apparato psichico del paziente, e di allacciarlo in modo più conveniente non già alla “realtà” oggettiva nel senso aristotelico, ma al totale circuito di realtà psichica fondamentalmente in atto in quel dato momento storico. Questa è la sola “obiettività” di cui possiamo correttamente parlare: e considerata in questo modo, l’opera analitica si giustifica, finalmente, anche in sede teoretica, in ciò che di relativo e di fluttuante ha il “sistema di valori”, empiricamente avvertito come “esterno”, al quale essa cerca di adeguare il soggetto.
Il risultato di quest’opera è la modifica dell’isolamento del soggetto rispetto al continuum psichico totale. Tutti sappiamo che la guarigione di un nevrotico non implica un abbandono dei meccanismi di difesa in quanto tali, ma una loro alterazione o sostituzione in un senso più conveniente – così come la riparazione di una porzione di circuito elettrico non implica la distruzione di ogni sistema di isolamento, ma un migliore equilibrio tra isolamento e conduzione. L’individuo analizzato – abbiamo detto in principio – vede il mondo con altri occhi. Ciò significa che la sua realtà psichica si è armonizzata nel miglior modo ottenibile con la realtà psichica totale, e che possono avvenire tra lui e questa realtà scambi, influenze ed arricchimenti prima impossibili. La sua miglior partecipazione al mondo psichico collettivo è la sola maggiore obiettività che possiamo riconoscere in lui: la sola che abbia un senso, la sola cui tutti possiamo e dobbiamo aspirare.
Emilio Servadio

Bibliografia

1. Freud S.: Formulierungen über die zwei Prinzipien des psychischen Geschehens (1911).

2. Freud S.: Neurose und Psychose (1924).

3. Freud S.: Der Realitätsverlust bei Neurose und Psychose (1924).

4. Weiss V.: La realtà nella fantasia, “Rivista Italiana di Psicoanalisi”, I, 5, Ottobre 1932, pp. 297-304.

5. Szalai A.: Philosophische Grundprobleme der psychoanalytischen Psychologie, Zurich, Octava Verlag, 1936.

6. Brierley M.: Trends in Psycho-Analysis, London, The Hogarth Press, 1951, p. 144.

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