Jacques Aymar e la radiestesia.
Luce e Ombra 1933

In un articolo storico-critico ricco d’insegnamenti e scritto con la consueta precisione, Cesare Vesme illustra («Revue Métapsychique», fascicolo di luglio-agosto) le vicende del rabdomante Jacques Aymar, la cui fama era all’apogeo quando comparve (1696) l’opera dell’abate di Vallemont sulla «bacchetta divinatoria».

Dopo aver ricordato come anche lo scettico Padre Le Brun avesse dovuto convincersi delle reali facoltà dell’Aymar (convincimento espresso nella sua celebre Histoire critique des pratiques superstitieuses), il Vesme ricerca i motivi degli insuccessi che seguirono allorchè il semplice e ingenuo contadino del Delfinato venne invitato alla corte del Principe di Condé, padre del primo ministro di Luigi XV. Tali insuccessi, scrive il Vesme, sono da attribuirsi principalmente alle circostanze seguenti:

1°) L’Aymar si trovò a Chantilly in un ambiente non soltanto incredulo e frivolo, ma addirittura ostile. E’ nota l’influenza che una simile ostilità, anche se dissimulata, esercita in tante esperienze psicologiche.

2°) Mancava completamente a Chantilly l’ «elemento drammatico», che nelle esperienze compiute dall’Aymar nel suo ambiente agiva invece in modo inequivocabile. Il rabdomante, per esempio, si trovò nell’impossibilità di riconoscere l’autore del furto di una borsetta, per la semplice ragione che tale furto era stato compiuto per ischerzo, in un senso per così dire sperimentale. Anche questa deficienza, sebbene non estensibile a tutti i casi del genere, trova riscontro in altri tipi di fenomeni. Si pensi, p. es., all’importanza che il fattore drammatico, affettivo, assume nella telepatia.

3°) Una serie di inganni e di trappole a danno dell’Aymar finirono con lo sconcertarlo e col metterlo in uno stato di continuo sospetto; impossibilità quindi per lui di «lasciarsi andare » ai suoi impulsi inconsci.

In sostanza, scrive il Vesme, ciò che avvenne a Chantilly somiglia molto a quanto accade attualmente con i soggetti psichici. «Quando le facoltà paranormali di uno di questi sembrano stabilite con certezza, dei nuovi sperimentatori succedono ai precedenti, dichiarandosi di cento cubiti superiori a quelli; pretendono di sostituire le condizioni nelle quali un fenomeno ha potuto effettuarsi con altre condizioni, nelle quali la manifestazione non si riproduce, o si riproduce solo con grande difficoltà, così come un seme germina e si sviluppa in un dato terreno e in un dato clima, e non in altri. Ne concludono che quanto era stato ottenuto sino allora non poteva essere che frode …. Allora, unicamente preoccupati di dimostrano, interpretano come frodi delle circostanze che possono benissimo esser spiegate in modo diverso; e se le frodi non si presentano, essi le provocano col loro modo di agire. I grandi quotidiani annunziano che il soggetto «è stato smascherato», e occorre ricominciare da capo. In qualsiasi altro ramo del sapere si tenta pure, a scopo di ricerca sperimentale, di ottenere uno stesso fenomeno nelle condizioni più disparate; ma non si pretende di imporre tali condizioni, e di tacciare altrimenti di nullità le esperienze precedenti: ciò sarebbe considerato assurdo. In metapsichica, invece, questo sistema è ritenuto logico e ammirevole… ».
Parole chiare e autorevoli, che non richiedono commenti. II Vesme osserva peraltro che nel secolo XVII non mancavano spiriti critici acuti, capaci d’interpretare rettamente tanto le cause degli errori di soggetti come l’Aymar, quanto in genere le condizioni psicofisiologiche di questi durante le esperienze; e cita l’abate di Vallemont, i dottori Panthot e Chauvin, persino la commissione che fu incaricata nel 1701 di esaminare l’opera del Le Brun e che nella sua relazione, redatta dai celebre Fontenelle, dichiarava che «le pratiche in questione sono semplici imposture degli uomini, oppure debbono avere delle cause non riconducibili alla fisica».

Passando a considerare le interpretazioni teoriche relative ai movimenti della bacchetta, che si avvicendarono sin da quando i fenomeni della rabdomanzia divennero di pubblico dominio, il Vesme ricorda come, una volta ammessa la necessità della presenza del rabdomante perchè la bacchetta potesse muoversi (e c’è stato persino, in pieno secolo ventesimo, chi ha dubitato di questa verità lapalissiana!), esclusa in linea di principio la «supernormalità » (telecinetica) dei moti in sé considerati, si venne alla conclusione che «le braccia, le mani del rabdomante si agitavano per un impulso indipendente dalla sua volontà consapevole e facevano in tal modo muovere la bacchetta »; la quale, secondo una felice espressione dell’abate di Cornier (1693), non serve che a segnalare e ad accentuare quei movimenti inconsci, così « come la lunghezza della lancetta di un orologio serve a rendere percettibile il movimento circolare del pernio che sta al centro del quadrante e sul quale essa è fissata».

Ma perchè, ci si domandò sin dall’inizio, le braccia del rabdomante si muovono? L’abate di Vallemont accettò e difese la teoria cartesiana dei «vortici di materia sottile», sparsi nello spazio. Il Malebranche invece espresse al Padre Le Brun summenzionato la sua adesione alla tesi e diabolistica e, alla quale il Le Brun aderì toto corde. Parecchi ecclesiastici più o meno famosi si schierarono in questo senso,, tantochè un decreto dell’Inquisizione del 26 ottobre 1701 finì col condannare l’opera del Vallemont e quelle analoghe dell’abate Lagarde e di alcuni autori italiani. La Chiesa ha dunque proibito le pratiche della bacchetta, senza far distinzioni. Se tale proibizione non è stata revocata, essa è peraltro caduta in desuetudine: molti ecclesiastici praticano oggigiorno la rabdomanzia, senza avere alcun fastidio da parte delle autorità superiori.

Ma, lasciata da parte l’interpretazione « diabolistica », le spiegazioni proposte dal Settecento ad oggi sono state prevalentemente di carattere fisico. Solo il linguaggio è mutato: si parla infatti di «radiazioni» e di «vibrazioni» anzichè di «corpuscoli», di «vortici», e di «effluvi elettrici»; ma parecchie vedute odierne non differiscono da quelle dei secoli passati se non formalmente. In certi punti, anzi, scrive il Vesme, si è indietreggiato invece che progredire, sforzandosi di ricollegare alla fisica un fenomeno che appartiene più propriamente alla Metapsichica. Anche il Vesme, come il Dr. Osty (cfr. la relazione di quest’ultimo, da noi riassunta nello scorso fascicolo della presente Rivista), è contrario al termine di «radiestesia», che implica un’interpretazione niente affatto accertata. Egli mostra come di fronte a certe sensazionali scoperte di sensitivi, p. es., dell’Aymar, non c’è ipotesi di «radiazioni» che possa giustificare quella che si è dimostrata come una vera e propria facoltà di conoscenza paranormale. Quali mai «radiazioni» possono informare (come si verificò nel caso dell’Aymar) intorno a una fuga di assassini, al loro soffermarsi su un dato sedile, al loro rifocillarsi con una determinata bottiglia di vino, e via discorrendo? Anche l’analogia proposta col disco grammofonico è superficiale e inesatta: poiché il disco reca un’incisione, un solco permanente, non già delle «radiazioni». «Insomma», conclude il Vesme, «la bacchetta in queste ricerche ha proprio la stessa funzione che hanno i fondi di caffè, il bicchier d’acqua, i tarocchi, ecc., nelle elucubrazioni dei e veggenti»: sono tutti mezzucci convenzionali per stimolare la manifestazione delle facoltà sopranormali di cui son dotati i soggetti.

Per ulteriori conferme il Vesme rinvia agli scritti notissimi, ma non sufficientemente studiati e compresi, dell’abate Lambert e del prof. W. Barrett: i quali, insieme con quelli dell’Osty e di vari altri, militano nel senso di una conoscenza paranormale e, di cui la bacchetta o il pendolo non sono che mezzi d’espressione.

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