Particolari sull’apparecchio elettrico «avvertitore»
Luce e Ombra 1930

Il sig. A. Rutot, dell’Accademia Reale belga, ha pubblicato una « monografia descrittiva » sull’apparecchio elettrico di cui abbiamo dato notizia ai lettori nel numero di aprile di « Luce e Ombra». Tale monografia occupa tutto il numero di luglio del « Bulletin du Conseil de Recherches Mètapsychiques de Belgique ».
Omettiamo tutta la parte che si riferisce alla malattia e alla morte del quindicenne Henri Vandermeulen, e ai primi tentativi da parte dei genitori di comunicare con lui mediante l’oui-ja: vi abbiamo del resto già accennato nel citato numero della nostra rivista. Come in altre comunicazioni di sedicenti spiriti, così anche in queste si rileva una serie di descrizioni sulla vita d’oltretomba, la quale consiste nel prolungamento delle azioni che l’entità compiva di preferenza sulla terra. « Henri » infatti suona il violino, giuoca agli scacchi, fuma ecc., e i parenti da lui incontrati nell’al di là si comportano press’a poco allo stesso modo. Tali affermazioni non sono nuove, diciamo, e i lettori avranno ben presenti quelle analoghe di « Raymond » al padre Oliver Lodge. Ma ciò che qui più interessa è l’apparecchio, costruito secondo le indicazioni date da «Henri» a cominciare dal 16 dicembre, e successivamente perfezionato. Ecco, la descrizione che ne dà il Rutot:
« L’avvertitore Henri Vandermeulen… comprende quattro elementi principali: 1° Un gruppo formato da due pile ordinarie riunite in tensione; 2° Una piccola suoneria elettrica; 3° Un gruppo di due prismi di vetro disposti verticalmente e parallelamente, lunghi circa 15 centimetri. Uno di essi, il più vicino alla pila, è stato previamente ricoperto da uno strato spesso di resina ordinaria; 4° Un piccolo triangolo di fil di ferro sottilissimo, mobile, che agisce come commutatore. I quattro elementi sono posti sopra un’assicella. Le connessioni avvengono a mezzo di fili di rame, nel modo seguente: dal polo positivo della pila parte un filo che scende dapprima verticalmente, poi s’incurva e diventa orizzontale per allacciarsi, mediante un cappio di filo di rame, verso la base del prisma senza resina; dal polo negativo della pila parte un filo che si congiunge con uno dei due attacchi della suoneria.
Dalla parte superiore del prisma con la resina si parte, mediante un cappio, un altro filo di rame che si collega all’altro attacco della suoneria.
I due prismi sono stati posti in modo che il filo positivo orizzontale passi a circa 12 millimetri davanti lo spigolo del prisma; d’altra parte, i due prismi sono collegati per la faccia superiore da un filo d’alluminio.
Infine, dal cappio che allaccia la parte superiore del prisma resinoso, al livello dello spigolo volto verso il filo positivo, parte un piccolo uncino al quale è sospeso il triangolo già menzionato, che è così verticale, con la base in basso, le dimensioni essendo calcolate perchè questa base sia da 5 a 6 millimetri circa sotto il filo positivo, e lontana da esso altrettanto.
Il triangolo può così oscillare nel suo piano e, per effetto di un piccolo impulso, può venire a toccare il filo positivo orizzontale; il che chiude il circuito elettrico e fa funzionare la suoneria… ».
Sempre aderendo all’ipotesi che si tratti dell’intervento di un disincarnato, il Rutot cerca di spiegare nel modo seguente il funzionamento dell’apparecchio:
« I due prismi di vetro, crediamo, hanno qui una funzione preponderante. Ci sembra logico supporre che un’entità disincarnata, che agisce in modo autonomo, sostenuta o non da un medium, abbia la facoltà di emettere un flusso energetico. In tal caso questo flusso, probabilmente di alta frequenza, diretto sui due prismi, vi produrrà degli effetti diversi: su quello resinoso produrrà un’elettrizzazione negativa, sull’altro un’elettrizzazione positiva. Ora, il prisma di vetro è raccordato al polo positivo della pila, e viceversa. Essendo il triangolo mobile collegato. direttamente al prisma resinoso negativo, ed essendo sospeso in prossimità del filo positivo della pila, si stabilisce un’attrazione tra il triangolo negativo e il filo positivo e così si chiude il circuito e la suoneria funziona… ».
Omettiamo tutta la parte della relazione che si riferisce alla semplice cronistoria delle sedute, e in ispecie quella relativa all’intervento delle « entità ostili ». I particolari dati dal Rutot a questo riguardo ci confermano nell’impressione sgradevole e alquanto meschina che avemmo dai primi ragguagli: questi « geni del Male » che parlano come donne di servizio, che promettono terremoti e cataclismi a getto continuo, non ci vanno assolutamente giù, e preferiamo vedere se la descrizione dell’apparecchio sia tale da appagare la nostra curiosità. Non dimentichiamo che il Rutot aveva annunziato « un progresso capitale realizzato nel divenire delle scienze metapsichiche ». Possiamo essere del suo avviso? Francamente non ci sembra. In che cosa consiste la pretesa grande invenzione? In un commutatore piuttosto sensibile, come se ne conoscono a bizzeffe nel campo elettrotecnico. Sembra davvero al Rutot che il fatto che l’apparecchio funzioni senza che nessuno lo tocchi abbia tanta importanza, quando da circa settant’anni si conoscono i fenomeni di telecinesi? E in quante sedute medianiche non si sono avuti suoni di campanelli o induzioni di corrente elettrica? Non c’è che l’imbarazzo delle citazioni, ma basterà per tutte rinviare il Rutot alle belle esperienze del Du Bourg de Bozas, riferite al I Congresso di Ricerche Psichiche di Copenaghen (1921). Il medium riusciva precisamente, in tali esperienze, ad aprire o chiudere a volozlà un circuito elettrico. Ammesso quindi che l’« avvertitore » funzioni (nè abbiamo motivo di dubitarne), resta semplicemente da dimostrare che chi lo fa funzionare è il defunto Henri Vandermeulen. Ora, prima di ammettere questo, occorre esaurire parecchie altre ipotesi, tra le quali la più semplice è appunto quella che nel gruppo assistito dal Rutot ci sia un medium a effetti fisici. Il che è sempre una cosa interessante e degna di studio, ma non nel senso che il Rutot vorrebbe sostenere. E soprattutto, adagio con i « progressi capitali », in un ramo di studi in cui i progressi anche minimi sono così difficili ad ottenere!…
Emilio Servadio

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