La paura del malocchio
(Relazione tenuta alla Società Psicoanalitica Italiana nella seduta scientifica del 21 febbraio 1934.)
Rivista di Psicoanalisi n.2 – 1934
Signore e Signori! Avverto subito che il tema di questa relazione è troppo ambizioso, e che quanto vi dirò al riguardo non lo esaurirà neppure lontanamente. Sarebbe certo assai desiderabile che sulla questione del malocchio si facesse uno studio di prima mano, che tenesse però conto dei punti di vista psicoanalitici. Gli studi d’assieme apparsi fin qui, invece, sviluppano assai poco la parte teorico-interpretativa, e organizzano il materiale – talora anche assai cospicuo – in base a classificazioni che peccano poco o tanto di formalismo. L’interesse erudito, insomma, prevale una volta ancora sull’interesse psicologico. Purtroppo ciò si verifica spesso negli studi di folklore e di demopsicologia.
Nel breve discorso che seguirà io tenterò dunque semplicemente di porre le principali questioni inerenti al malocchio nei loro termini fondamentali, quali appaiano allo studioso di psicoanalisi. Il tempo e l’opportunità mi mancano per fare di più.
La paura del malocchio fa parte di quell’atteggiamento primitivo, proprio soprattutto del bambino e del selvaggio, per cui si ritiene il mondo popolato di forze ed enti invisibili, che operano attraverso vie trascendenti l’umana comprensione, e che sono precipuamente svincolati dalla comune legge di causalità. La fede nell'”onnipotenza del pensiero”, il principio che “non si pensa se non ciò che è” (frase cui si son voluti attribuire profondi ed ascosi significati), sono momenti evolutivi nella storia del singolo o dell’umanità, ben noti al psicoanalista. Si tratta, com’è ovvio, del persistere nell’individuo di tratti egocosmici, propri all’infanzia, allorquando si crede che il mondo stia al nostro servizio e che si possa agire, attraverso il pensiero e la parola sulla realtà circostante.
Questo atteggiamento subisce, com’è naturale, delle attenuazioni e dei limiti, a seconda dei vari gradini dell’evoluzione individuale o collettiva: è già un’attenuazione il credere che altri, all’infuori di noi, possano compiere azioni di carattere magico. E anche nell’uomo completamente evoluto si nota talora un’ultima indulgenza verso l’atteggiamento magistico, nel piacere provato, per esempio, di fronte a un riuscito giuoco di prestigio, o a un’acrobata che sembri trascendere le leggi fisiche: od altresì nell’aderire a questa piuttosto che a quella Weltanschauung.
La paura del malocchio presuppone dunque, poco o tanto, l’ammissione di poteri di ordine extranaturale ed extralogico. Ma come tutte le paure essa deve pure avere una radice in un’esperienza almeno psichicamente reale. Il persistere degli anzidetti tratti infantili determina dunque – curioso a dirsi – lo spostamento di tale paura reale (e più o meno fondata dal punto di vista infantile), e il suo trasformarsi in una paura che per l’adulto è del tutto irrazionale. Non ci stupirebbe che degli individui, nel cui inconscio si facesse ancora potentemente sentire tale paura, ma che coscientemente fossero del tutto logici e razionali, commettessero un’unica infrazione alla loro logica e alla loro ragione spostando la paura anzidetta e cedendo a quella irrazionale del malocchio. La psicoanalisi ci ha abituati a tali fenomeni: e su questo punto, d’altronde, ci spiegheremo meglio più innanzi.
In che cosa consiste, estrinsecamente parlando, la paura del malocchio? Nella credenza che questa o quella persona, attraverso un’influenza occulta, e particolarmente a mezzo dello sguardo, possa arrecare un danno, sia fisico sia morale, ad un’altra, o comunque al mondo circostante. Questa credenza assume forme svariate, si estende persino ad animali, o ad oggetti. Ma la sua forma più tipica e diffusa è quella definita dalla parola “malocchio”, che trova riscontro nel böser Blick tedesco, nel mauvais oeil francese, nell’inglese evil eye ecc.: paura dello sguardo di certi individui.
Il fenomeno è senza dubbio tra i più diffusi, storicamente e spazialmente. Già in vari passi della Bibbia (Deut. 2054,56; I8 1318: Prof. 236, 2822;Sal. 9211, ecc.) vi si fa esplicitamente allusione. Il malocchio fu temuto, oltre che dagli antichi Ebrei, dagli Egizi, dagli Etruschi, dai Greci, dai Romani, e per tutto il Medioevo, come è stato dimostrato da una serie di studi speciali che non cito per brevità e da amuleti ed oggetti di scongiuro sui quali avremo modo di ritornare.
Questa potenza malefica dell’occhio è stata ab antiquo perfettamente isolata, e resa indipendente dall’intenzione di colui che guardasse: ma naturalmente l’intenzione di arrecar male aggravava tale potenza. La stessa parola invidia, derivante dal lat. in-video, esprime assai bene l’atteggiamento di chi “guarda con cattive intenzioni”. Nelle Sacre Scritture “invidia” e “malocchio” sono press’a poco sinonimi. D’altra parte abbiamo svariatissimi esempi della paura di questa facoltà malefica in quanto tale: così per esempio quella dello sguardo del serpente (che è pressoché universale) o di altri animali. Si ebbe o si ha paura persino di oggetti inanimati, come statue, ritratti, simboli, o corpi celesti! Occorre aggiungere i casi che riguardano il genere umano, come quello riferito dal Woyciki, di un contadino slavo che si accecò perché involontariamente causava danni ai suoi familiari col solo guardarli; o lo stesso passo della Bibbia più sopra incidentalmente citato (Deut. 28 54,56), in cui il Signore dichiara quale tipo di uomo e quale tipo di donna posseggano di per sé il malocchio. L’esempio tradizionale più classico di potenza malefica auto-operante dello sguardo è poi notoriamente quello di Medusa: mito di non facile comprensione, e sul quale esprimerò più oltre, per quello che può valere, il mio punto di vista. Per ora basti ricordare che l’origine della potenza gorgonica era nello sguardo: tutte le altre sono sovrastrutture; anche i moderni filologi inclinano a credere che il nome stesso di Gorgone si riferisca allo sguardo funesto della femmina anguicrinita. Ricorderemo ancora, come il più noto degli esseri mitici di questo tipo, il basilisco, che fu famoso specialmente nel Medioevo. È assai noto che, per estensione, il danno poteva essere arrecato anche agli animali: ma, si osservi, questi sono sempre animali domestici. Nella III Egloga Virgilio fa dire al suo pastore: “Nescio quis teneros oculus mihi fascinat agnos”: i Turchi e gli Arabi proteggono con ogni sorta di amuleti i loro cavalli e i loro cammelli contro il malocchio: e l’uso delle acconciature e dei finimenti che ancor oggi adoprano i nostri cocchieri ha, tra l’altro, anche un’origine scongiurativa. Gli “jettatori di cavalli” sono particolarmente noti in Italia.
Come si trasmette il potere malefico dell’occhio? Non ci consta che coloro i quali odiernamente credono al malocchio abbiano teorie in proposito: se le avessero, si tratterebbe non più di un atteggiamento del tutto irrazionale, magistico, tipicamente infantile, ma già di un modo prescientifico di considerar le cose. E a uno stadio prescientifico appartengono infatti le pseudo-spiegazioni di Democrito e di Eliodoro, con le loro “piccole immagini” o “atomi impalpabili”, che avrebbero trasmesso la forza operante dagli orchi dell’uno alla vittima più o meno designata. Similmente può dirsi di molte teorie anche successive, da S. Tomaso a Paracelso, a Cornelio Agrippa, ad Alberto Magno, ecc. Ad ogni modo questo lato della questione non ha un grande interesse per noi: esso sta semplicemente a dimostrare che in antico l’influenza del malocchio era pressoché universalmente riconosciuta, e che taluni pensatori di fama, non sapendo risolversi a negarla, tentarono in qualche modo di razionalizzarla, naturalmente con poco successo.
Più interessante può essere il soffermarsi, sia pure brevemente, su coloro cui tradizionalmente è attribuito il triste dono del malocchio. In primo piano troviamo le persone i cui occhi hanno qualche particolarità: i guerci e gli strabici, ad esempio, specialmente in Italia, sono considerati di frequente come jettatori: e tale convinzione doveva esser diffusa anche in antico, se Orazio (Epist. I, 14, 37) accenna al potere malefico dell'”oculus obliquus” e se Plinio (Nat. Hist.. VII. 2) attribuisce a Cicerone il parere che “feminas omnes ubique visu nocere quae duplices pupillas habeant”. Anche lo sguardo troppo chiaro, o gli occhi troppo grandi o sporgenti, o di un particolare colore, ecc., potevano tirare addosso la fama di jettatore a questa o a quella persona: e abbiamo già ricordato come tale caratteristica giungesse a far ritenere pericoloso persino lo sguardo dell’uno o dell’altro animale. Altrettanto generale e diffusa è la convinzione che se un bambino o un animale domestico viene troppo guardato, anche senza cattive intenzioni, ciò possa essergli fatale. Questa paura dello sguardo altrui rivolto a un bambino è diffusissima nelle classi popolari italiane, specie naturalmente se chi guarda ha un aspetto poco simpatico o poro rassicurante. È da notare infine che molti grandi personaggi sono stati considerati jettatori: così Pio IX, Leone XIII, tra i papi; Napoleone III, Alfonso III tra i sovrani. Inutile ricordare i molti uomini illustri anche viventi a cui è stata fatta questa fama.
Sono specialmente soggette a subire il malocchio certe categorie di individui che brevemente ricorderemo: anzitutto le persone o gli animali o le cose di singolare bellezza; inoltre, più particolarmente, i bambini e gli adolescenti, secondo una credenza universalmente e profondamente diffusa: le donne prima o subito dopo il parto, le persone nude, le persone dormienti o che si trovano in luoghi oscuri, gli ammalati, gli individui gracili. Come si vede, la caratteristica comune di tutte queste categorie è la debolezza o l’incapacità a reagire. Abbiamo già menzionato gli animali, specie domestici: occorre aggiungervi le piante, per lo più utili, come pure una serie di oggetti casalinghi. Anche per queste ultime categorie il criterio dell’inermità sembra prevalere.
Potrei moltiplicare gli esempi, valendomi dei repertori diffusissimi pubblicati sull’argomento, e in special modo del vasto lavoro del Seligmann (1): ma non mi pare che ciò sarebbe molto utile ai nostri fini. Le poche informazioni date sin qui costituiscono appunto una sintesi di molte osservazioni parziali, e su queste potremo fondare le nostre interpretazioni. Alle quali passeremo senz’altro, poiché l’esame, che ci resterebbe ora da fare, degli scongiuri e degli oggetti di scongiuro contro il malocchio, non può che aver valore di conferma per le osservazioni di carattere interpretativo ad essi inerenti.
Sin dai primi tempi dell’indagine psicoanalitica l’attenzione dei ricercatori si è soffermata sull’occhio e sul suo simbolismo. Fu presto accertato che l’occhio poteva rappresentare tanto il genitale maschile, (è questo anzi il simbolo più frequente) quanto quello femminile e quanto anche la sessualità più genericamente considerata.
Per ognuno di questi tre simboli, e soprattutto per il primo, gli esempi (tratti dai miti, dal folklore, dai sogni, dai sintomi nevrotici) sono numerosissimi. Ne citeremo qualcuno a titolo informativo.
Degli occhi come simbolo genitale maschile c’informano anzitutto miti e leggende dell’antichità, e sopra ogni altro quello di Edipo. Ferenczi ha dimostrato sin dal 1912 (2) che l’autoaccecamento di Edipo è un equivalente dell’autoevirazione. Nell’antica leggenda egizia di Horus, figlio di Osiride, il dio combatte contro Set, uccisore del padre: gli vien strappato un occhio, mentre Set vi perde i genitali; l’occhio viene fatto ingerire a Osiride, che riacquista vita e potenza. Intorno all’occhio di Horus sono state elaborate altre leggende analoghe, di cui qui basterà la semplice menzione. Ricordiamo ancora il mito di Polifemo (il padre crudele), che divora i propri figli (i compagni di Ulisse), sinché quest’ultimo, più forte ed astuto, lo rende impotente cavandogli l’occhio (il membro): mito analogo a quello, ancora più noto, di Saturno e di Giove.
In vari sogni questo simbolo compare con evidenza: così il Rank (3) ci narra di un giovane il quale, svestito, compie davanti ad un certo numero di donne degli esercizi acrobatici, consistenti nel tenere in equilibrio sugli occhi un tubo di 17 cm. di lunghezza. L’Eder ci descrive un altro sogno, in cui il sognatore, oculista, toglie l’unico occhio a un dentista. Nel primo di questi sogni agisce con ogni evidenza un impulso esibizionistico, nel secondo il desiderio di evirare il padre. Comunque il simbolismo è in entrambi assai chiaro. Un mio analizzando sognò una volta di trovarsi con un suo parente più anziano presso una tavola: questo parente aveva un occhio bendato. Dalle associazioni risultò chiaro il simbolo dell’evirazione paterna, mentre la tavola rappresentava la madre del sognatore.
Lo stesso Ferenczi (4), infine, in un suo breve saggio che raccoglie sette esempi di simbolistica dell’occhio, ricorda fra l’altro un paziente, il quale molto si vergognava della sua miopia: si trattava in realtà, come risultò dall’analisi, di un “complesso del membro troppo piccolo”: complesso che veniva compensato con esagerato onanismo e con atti sadistici durante il coito.
Ma l’occhio, come abbiamo detto, può essere anche un simbolo genitale femminile: a ciò si prestano la sua forma oblunga, i suoi orli, l’esser circondato da peli. In particolar modo si riscontra come la parte dell’occhio che viene assimilata all’organo femminile sia la pupilla con il foro dilatabile dell’iride. In latino, del resto, la parola pupilla significa fanciulla, e tale significato è press’a poco rimasto anche nella nostra lingua (5).
Dell’occhio quale simbolo femminile ci danno conferme leggende come quella indiana di Indra, che dapprima condannato a portare sul corpo una serie di immagini del genitale femminile, viene poi perdonato dagli dèi, i quali si contentano che le immagini siano quelle di altrettanti occhi (6). Nel lavoro citato di Ferenczi si riporta il caso di una ragazza che ha la fobia delle punte: essa teme che un oggetto a punta possa forarle l’occhio. Questa fobia era insorta sul terreno seguente: la ragazza aveva relazioni sessuali da vari anni con un giovane, ma non gli consentiva l’immissio penis, temendo la rottura dell’imene; tale paura si era mutata, in sintomo fobico con valore simbolico.
Finalmente gli occhi, e più ancora la vista, possono simboleggiare la potenza sessuale o la sessualità in genere: lo “strizzare l’occhio” è costume diffusissimo per invitare una persona di sesso diverso a una relazione erotica. Il Reitler ( 7 ) menziona il vocabolo tedesco Blendlinge (“accecati”), che indica i muli, i bardotti, e in genere gli animali risultanti da incroci e quindi inadatti a continuare una razza pura. Forse nello stesso senso vengono chiamati in Toscana “ceche” le anguille che non hanno ancora raggiunto la maturità sessuale.
Nella chiusa del suo lavoro, Ferenczi, dopo aver menzionato in poche frasi i fondamenti della simbolistica, ricorda come per il meccanismo della rimozione uno dei due termini dell’analogia venga indebolito e l’altro, più innocuo, valorizzato. Nel caso degli occhi, come in genere dei simboli che si riferiscono al volto, la valorizzazione avviene secondo quella che il Freud chiama Verlegung von unten nach oben (spostamento dal basso verso l’alto); ma lo stesso Ferenczi ha cura di notare che lo spostamento è stato facilitato, in questo caso specifico, dal “valore libidico” dell’occhio come tale: valore inerente all’elemento visivo dell’istinto sessuale (Schaulust, il piacere di guardare), messo in chiaro da Freud.
Da quanto precede sembrerebbe, in prima approssimazione, che la paura del malocchio dovesse equivalere, per l’inconscio, alla paura degli organi genitali dell’adulto, e delle loro possibilità di azione. Infatti sappiamo che la vista dei genitali del padre (più frequentemente) o della madre può costituire un trauma in età infantile, e dar luogo a conflitti e a processi autopunitivi. Ferenczi, nel lavoro citato sulla simbolistica dell’occhio, ricorda che in parecchi sogni d’angoscia appaiono occhi che s’ingrandiscono e si rimpiccoliscono; egli ravvisa in questo simbolo una chiara rappresentazione del genitale maschile, ed esprime la convinzione che la frequente angoscia dei bambini di fronte agli occhi degli adulti abbia anche una radice simbolico-sessuale. Quanto abbiamo detto sulle persone particolarmente soggette al malocchio (bambini, esseri deboli, ecc.) confermerebbe questo punto di vista.
Paura degli occhi altrui equivarrebbe quindi, secondo questo primo avvicinamento, alla paura del genitale, e più spesso di quello dell’adulto padre; tale paura evidentemente può avere essa stessa varie motivazioni: la più frequente sarà, pensiamo, la reazione contro l'”aver visto” (che può riferirsi anche ai genitali di un fratellino o di una sorellina), contro l’anzinominata Schaulust (8); ma non è da escludere che ad essa partecipi anche una reazione, assai frequente e nota, contro la passività nei confronti dell’uno o dell’altro genitore: la paura vorrebbe dire, in questo caso, tema di essere posseduti dal padre o dalla madre.
Ma se questo può essere il momento, per dir così, generico della paura del malocchio, dobbiamo ora esaminarne il momento specifico. Sia in un caso come nell’altro dei due testé considerati, quali sono le temute conseguenze? Di che cosa, in sostanza, si ha paura?
Infatti: la prima approssimazione data più sopra sarebbe sufficiente qualora la paura del malocchio consistesse nel timore di conseguenze spiacevoli per aver visto ciò che non si doveva vedere, ossia, nella fattispecie, gli occhi (i genitali) dell’individuo x o y: Ma la paura invece è più vasta, poiché il malocchio agisce anche indipendentemente dalla partecipazione dell’individuo; esso può esercitarsi, come abbiamo notato, su dormienti, su esseri deboli e ignari: anzi, si esplica specialmente su queste categorie di soggetti.
Per comprendere bene il “genere” della paura del malocchio dobbiamo ricordare come sorge nel bambino il complesso di evirazione. Innestandosi e succedendo al complesso edipico, il complesso di evirazione sorge allorché il bambino maschio si rende conto, per la prima volta, della differenza anatomica che corre tra lui e una bimba, attribuisce questa mancanza della femmina a una amputazione, e teme la possibilità di un analogo intervento sul suo genitale. Spesso il bambino attribuisce questo non avvenuto intervento a una dimenticanza, e il più delle volte, comunque, la sua preoccupazione è che qualcuno soffermi la propria attenzione sul suo membro, e pensi all’opportunità di tagliarlo.
Il Weiss, nella sua “Analisi di un caso di ereutofobia” (9), ci ha descritto appunto una simile preoccupazione in un suo paziente, il quale per un certo tempo visse nella paura che qualcuno scoprisse ch’egli aveva ancora il membro, e volesse tagliarlo.
Appare chiaro che la condizione necessaria e sufficiente perché questa paura prenda corpo è l’essere visti dagli adulti, o comunque da persone che possano, per la loro età o forza fisica, essere in grado di compiere l’intervento temuto. La “paura di essere visti” è dunque “paura che lo sguardo altrui si soffermi sul proprio genitale”, e quindi è “paura di evirazione”. Nella femmina è chiaro che la paura sarà invece quella che venga constatata e resa di pubblico dominio la sua inferiorità. Ma d’altronde la paura del malocchio è molto meno sentita dalle donne che dagli uomini.
Pur senza escludere dunque che nella paura del malocchio la reazione contro la Schaulust o la tema dell’altrui genitale possa avere una parte, noi crediamo dunque che il momento fondamentale di essa debba ravvisarsi nel richiamo del complesso di evirazione. La paura dell’evirazione, com’è noto, si trasforma infatti agevolmente in altre “paure”: paura di malattie, paura della morte, paura di un danneggiamento in genere: e tali sono appunto le conseguenze che si temono dal malocchio. Il Seligmann (10), nel citato volume, ricorda parecchie di queste temute conseguenze: ed è facile rilevare che la paura delle più importanti, cioè cecità, infiammazione agli occhi, impotenza, sterilità, ferite, morte, esser mutati in pietra, ecc., equivale alla paura, d’evirazione. È opportuno ricordare qui che il vocabolo latino fascinus indica al tempo stesso la fascinazione (il malocchio) ed il membro virile.
È ovvio richiamare quanto il Freud ha esposto sull’angoscia nella 32a delle sue nuove lezioni introduttive ( ). La situazione del bambino di fronte al temuto pericolo di evirazione stabilisce la condizione per il prodursi di angoscia: più tardi, benché manchino i motivi attuali per il ripetersi dell’angoscia, un richiamo alla paura dello sguardo altrui, tipica di quell’età infantile, basterà, in talune categorie di individui, a far nuovamente insorgere, svisata ed attenuata attraverso spostamenti, simboli ed allegorie, quella grande paura di un tempo.
La cosa non muta qualora si voglia considerare il caso dello sguardo fisso, penetrante, che “incatena”: in questo caso, che è poi quello dell’ipnotismo, la fissazione dello sguardo tende a distornare l’individuo dal mondo esterno, a renderlo quindi indifeso e inferiore; e sappiamo bene come il sentimento d’inferiorità e la paura relativa trovino origine nel complesso di evirazione (e si riconnettano, in ultima istanza, al trauma della nascita). Mentre nel caso dell’ipnotismo l’individuo regredisce a situazioni passive, cede per così dire le armi, in questo caso particolare della paura del malocchio (come in genere in tutti i casi analoghi) egli reagisce nei modi più vari: con la fuga, con l’aggressione, ma nella maggior parte dei casi con gli scongiuri.
Prima di soffermarci su questi ultimi – il cui simbolismo, crediamo, rappresenterà la conferma più ampia delle nostre vedute e del buon fondamento di questa applicazione analitica – vediamo, in base agli elementi già passati in rassegna, se il nostro schema approssimativo viene convalidato dall’ampio materiale raccolto dai folkloristi e dai demopsicologi.
Sulla qualità degli occhi e degli sguardi più frequentemente accusati di malocchio, abbiamo già discorso: si tratta di occhi per un verso o per l’altro tali da richiamare l’attenzione: o molto brutti, o molto belli, o stranamente colorati, strabici, guerci, dalle sopracciglia foltissime oppure molto rade, ecc.; tali, insomma, da rievocare l’elemento “essere guardati” in genere.
Circa i tipi di persone cui si attribuisce questo potere, il discorso potrebb’essere naturalmente assai lungo: ci basti ricordare che per lo più si tratta di individui che per un verso o per l’altro possono rappresentare un adulto (padre, madre) cattivo, o brutto (si noti che i due aggettivi spesso si equivalgono nel linguaggio infantile): quindi, tra gli uomini, gente con difetti fisici (o con qualità troppo appariscenti), dall’aria minacciosa, o insidiosa, gente dalla condizione o dalla professione ripugnante: mendicanti, becchini, delinquenti, ecc.; tra le donne, vecchie, fattucchiere, mendiche, ecc.
Come si è detto, anche a certi animali viene attribuita la potenza del malocchio; dal lungo elenco datone dal Seligmann si può provare che si tratta per lo più di animali carnivori o feroci, di moltissimi uccelli, e soprattutto di rettili (serpenti in particolare); inoltre tra gli insetti il ragno, tra i molluschi il polipo. In tutti è evidente o la pericolosità, o la particolare fissità dello sguardo, o il simbolismo fallico loro attribuito: o anche due o tre di queste prerogative messe insieme.
Abbiamo già rilevato i punti relativi alle persone, o agli animali, o alle piante ecc., che possono essere particolarmente soggetti al malocchio, e quelli che riguardano le temute conseguenze di esso.
Se adesso consideriamo i gesti e gli oggetti di scongiuro, abbiamo la prova più chiara di quanto siamo venuti dimostrando sin qui. Se la paura del malocchio equivale, in ultima istanza, alla paura d’evirazione, o di un danno comunque connesso con la visione del genitale da parte di altri, la reazione all’influenza temuta dovrà avere carattere esibizionistico: dovrà, cioè, testimoniare e affermare la presenza del genitale minacciato. E infatti noi vediamo che i gesti più comuni ed usuali di scongiuro hanno appunto questo carattere: allorché si nomina o appare un individuo ritenuto “jettatore”, per poco che le circostanze lo permettano gli uomini reagiscono toccando i testicoli. Questo diffusissimo gesto di scongiuro, assai eloquente, è poi esteso a un’infinità di altri oggetti il cui contatto si crede possa avere efficacia: chiavi maschie, chiodi, cornetti, ferri di cavallo, manine di metallo che “fanno le corna”, pietre puntute, noci a tre cantoni, elefanti con la proboscide alzata, denti canini… e l’elenco potrebbe continuare per parecchie pagine: si tratta, nella massima parte dei casi, di evidentissimi simboli fallici; oppure, comunque, di oggetti aventi un significato sessuale più o meno velato.
Sfogliando le pagine del Seligmann, o di altri repertori, ci si imbatte ad ogni momento in questi simboli. Ne ho notati alcuni tra i più tipici: così un oggetto contro il malefizio d’impotenza, tratto da un’opera di Paracelso, è un tridente con qualche parola magica (p. 159, vol. I); alcuni celebri amuleti antichi – repliche di uno stesso motivo iniziale – rappresentano un occhio circondato da animali ed oggetti vari, e precisamente (p. 95, vol. II), in un amuleto siciliano: un serpente, un gallo, un lupo, un leone, un genitale maschile in erezione e con le ali, uno scorpione, due folgori incrociate e tripartite, una lucertola, un uccello in volo (fig. 1). La mano pantea, usata come scongiuro consiste nello stendere tre dita (il pollice, l’indice e il medio), ripiegando le due ultime (p. 203); se qualcuno avesse dubbi sul significato dei gesto di “far le fiche”, ossia introdurre il pollice tra l’indice e il medio ricurvi, basterebbe a convincerlo del simbolismo fallico inerente a tale gesto un bronzo di Ercolano che consiste in un anello centrale con tre ramificazioni, l’una rappresentante un phallus, l’altro una mano nella posizione anzidetta, la terza un’ornamentazione a sua volta trilobata (p. 227, fig. 2): un gesto analogo, assai diffuso anche in Italia, è quello di chiudere il pollice nella mano tra le altre dita: gesto che simboleggia assai bene il “trattenere”, il “voler conservare” (il membro); un’iscrizione trovata a Thala, in Africa, e disegnata su pietra fra un fallo e una pianta che reca due gruppi di tre frutti a forma di cuspide, recita: “hoc, vide, vide, et vide, ut possis plura videre (p. 253, fig. 3).
Un altro oggetto contro il malocchio, ben noto agli archeologi, è il phallus oculatus, ossia il genitale che reca in se un occhio (p. 281). Molti di voi avranno visto gli innumerevoli phalli portafortuna di Pompei… Ma, ripeto, per coloro che volessero compiere uno studio sul simbolismo fallico o sessuale degli oggetti di scongiuro, non c’è che l’imbarazzo della scelta. L’opinione espressa dal Forlong (12), che ravvisa in tutti gli amuleti protettivi un’origine fallica, ci trova quindi in massima concordi.
E avremmo finito: senonché vorremmo aggiungere poche parole sul più noto mito antico riguardante il malocchio, cioè sul mito della Gorgone. A mio parere non v’ha dubbio che questo essere terrificante, il cui solo sguardo rende gli uomini “di pietra” (ossia impotenti), e a cui soltanto un eroe, Perseo, può dar la pariglia, tagliandole la testa anguicrinita, rappresenti la madre minacciosa, fallica, che non si deve guardare, che possiede o possedeva il membro e che può o vuole privarne il bambino. In questa immagine mitica confluiscono dunque e si sommano, a nostro avviso, le due paure fondamentali che danno origine a quella del malocchio: paura di guardare (il genitale dell’adulto), paura di essere guardati (di perdere il proprio). Tale interpretazione trova anzitutto conferma, secondo una tesi archeologica accreditata, nel fatto che il tipo originario della Gorgone era un tipo maschile. Si badi inoltre al simbolo serpentino dei capelli e della cintura, ed anche al fatto che la Gorgone vive nel mare. E ricordiamo infine gli evidenti punti di contatto fra l’aspetto di Medusa e quello di animali circondati da arti o da tentacoli semoventi, come per esempio lo stesso animale che porta il suo nome, o il polipo, o il ragno, nel quale ultimo Abraham ravvisò appunto il simbolo della madre fallica (cfr. la fig. 4, che rappresenta la Gorgone del tipo arcaico).
Mi auguro che queste brevi annotazioni possano indurre qualche studioso italiano a tentare, nel campo demopsicologico o folkloristico, ricerche analitiche più vaste, quali sono state effettuate con notevole successo da vari autori stranieri. Osservo che nella nostra Società è la prima volta che un tema del genere viene affrontato: e per quanto il saggio sia stato modestissimo, mi auguro ch’esso non rimanga isolato e senza successori.
1) S. SELIGMANN: Der böse Blick und Verwandtes. Berlino 1910. 2 voll.: I0., Die Zauberkraft des Auges und das Berufen. Amburgo 1922
3) S. FERENCZI: Symbolische Darstellung des Lust und Realitätsprinzip in Oedipus Mythos, in Imago, I (1912), p. 276 segg.
3) O. RANK: Eine noch nicht beschriebene Form des Oedipustraumes, In Internationale Zeitschr. für ärztliche Psychoanalyse, I (1913), p. 151 segg.
4) S. FERENCZI: Zur Augensymbolik,ibid,. p. 161 segg.
5) fr. K. ABRAHAM: Traum und Mythos, Lipsia e Vienna 1909, p. 16.
6)Cfr. C. G. Jung, In Jahrb. f. Psychoanalyse, IV, p. 312.
7) R. REITLER: Zur Augensymbolik, In Internat. Zitchr, f. Ärztliche Psychoanalyse, I (1913). p. 159 segg.
8) Questa a sua volta può condurre a molte conseguenze: nel bambino maschio, al desiderio di evirare il padre o alla scoperta della “castrazione” subita dalla donna; nella bambina al desiderio di essere posseduta dal padre (desiderio del membro) o alla protesta virile. S’intende che tutte queste tendenze vengono assoggettate a rimozione.
9) Riv.Ital. di Psicoanalisi, anno II, n. 2.
10) Op. cit., Vol. I, p. 196 segg.
11) Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, Wien. Int. Psych. Verlag. 1933. cap. XXXII: Angst und Triebleben. Cfr. anche la trad. it.. in Riv. Ital. di Psicoanalisi, 1933, n. IV; specie p. 234 segg. 12) J.G.R. FORLONG: Rivers of Life, Londra 1883.