Il motto di spirito
Relazione tenuta alla Società Psicoanalitica Italiana, nella seduta scientifica del 17 maggio 1933.
Rivista di Psicoanalisi 1933 pp.256-273

Signori,

I massimi filosofi moderni, forse con la sola eccezione del Bergson, hanno in genere trascurato il problema del comico: problema che pure, da Platone in poi, molto aveva interessato la filosofia come tale. Quale può essere il motivo di questo atteggiamento? Ce lo rivela con ogni probabilità il Croce, laddove dichiara che lo studio del comico è di pertinenza della psicologia empirica, poiché non è possibile indagare filosoficamente i fatti del sentimento. Non ci umilia certo il posto non precisamente elevato che una certa filosofia contemporanea concede alla psicologia; e non discuteremo a questo proposito sulla maggiore o minor legittimità filosofica di questa condanna o semi condanna, ne ciò che più importerebbe sul quesito se si tratti proprio di una condanna o non piuttosto di un riconoscimento d’autonomia; premendoci soprattutto rilevare quanto è implicito nelle parole del Croce, essere cioè la questione del comico non risolvibile se non in sede psicologica, dato che il comico non pertiene propriamente a nessuna delle quattro forme (economica, etica, logica ed estetica) in cui può manifestarsi, secondo questo filosofo, lo Spirito con la S maiuscola.

Ci accontenteremo dunque di indagare, in un campo affine a quello del comico, quanto si possa per avventura dire sullo spirito con la s minuscola. Limiteremo in tal modo il nostro assunto, non senza vedere però se e fino a qual grado si possano estendere al comico in genere le osservazioni che avremo modo di fare, su quella causa particolare di riso che è il motto di spirito; e riservandoci altresì di esaminare se per caso la non-filosoficità del problema del comico sia proprio da accettare e da riconoscersi in toto, o se non sia questo un giudizio unilaterale e per così dire di Standpunkt.

Certo, i generi del comico sono svariatissimi: anche assumendo provvisoriamente il vocabolo come aggettivo sostantivato più generale (“ciò che suscita il riso”), ricorderemo che un motivo che suscita il riso può essere ridicolo, buffo, scherzoso, spassoso, divertente, spiritoso, ironico, satirico, umoristico… Alcuni di questi aggettivi si differenziano da altri per sfumature, ma alcuni sembrano costituire vere categorie: nessuno si sognerebbe di confondere, p. es., il satirico con l’umoristico, o l’ironico con lo spiritoso. II motto di spirito, poi, ha sue caratteristiche formali assai evidenti, che consentono di trattarne partitamente.

II tentativo più approfondito di dare del comico – ma più specialmente del motto di spirito – un’interpretazione su basi rigorosamente psicologiche, è stato compiuto sino ad oggi da Sigm. Freud. Né poteva esser diversamente, poiché la psicoanalisi freudiana ha fatto della psicologia una scienza naturale e ha spinto le proprie indagini intorno ai processi psichici molto più in là di quanto non ci si fosse mai sognati di compiere antecedentemente. E’ quindi logico, diciamo, che la scienza psicoanalitica, e Freud in particolare, dovessero perfezionare largamente le ricerche dei predecessori sul comico e sul motto, anche se non proprio giungere a dei risultati completissimi e definitivi.

Il Freud, nel suo saggio assai noto, ma non molto studiato né analizzato, tratta prima dei motto di spirito, per poi dare un tentativo di teoria del comico. Seguiremo anche noi questa via, accompagnando l’Autore nelle sue progressive induzioni.

E’ di induzioni si tratta appunto, poiché il Freud comincia con l’esaminare il motto di spirito a seconda di questa o quella sua caratteristica estrinseca, ravvisando volta a volta in esso varie tecniche. Così egli trova dapprima che il motto di spirito può risultare da una condensazione con formazione sostitutiva cioè dando origine a un nuovo vocabolo che esprima due significati in uno: così per esempio se si dicesse, di un olandese dedito al vino: è un alcoolandese . In secondo luogo, ai fini dello spirito, si può aver l’impiego della stessa parola, o di parole pressoché simili, con accezioni differenti, ma entrambe relative al tema del motto. Così di un ebreo al servizio di Hitler, del quale si dicesse che il suo ante-semitismo è divenuto antisemitismo . Si passa poi al doppio senso della stessa parola senza alcuna modifica. Così: questa ragazza mi ricorda Dreyfus: l’esercito non crede alla sua innocenza. Il calembour è una sottospecie inferiore. di questo tipo, perché il giuoco verte qui sul suono e non sul senso, il raccostamento è puramente formale.

Altra tecnica del motto è, secondo il Freud, quella dello “spostamento”, ossia del voluto fraintendere il significato di una frase: “Dove vai quest’agosto? Al Cairo Disgraziato! Troverai 50 gradi all’ombra! E chi mi obbligherà a stare all’ombra?” . Un’altra è fondata sul “controsenso” altre sul difetto di ragionamento , sull’ unificazione Un esempio di motto di spirito per “rappresentazione col contrario” è fornito dall’ebreo che asserisce solennemente: “Io prendo un bagno ogni anno, che ciò sia utile o no” . Si hanno ancora le forme della “rappresentazione col simile” e del “paragone metaforico” Di quest’ultimo uno degli esempi più graziosi è certo questa mal traducibile definizione di Lichlenberg: eine zweischlafrige Frau .

Anticipando un poco su quanto lo stesso Freud dirà più oltre nel suo lavoro, noteremo che tutte le tecniche esaminate, sulle quali evidentemente si fonda almeno in parte l’efficacia del motto, hanno un fattore comune, che è quello del risparmio. Supponendo infatti che un ascoltatore non avesse compreso, per una ragione o per l’altra, uno dei motti che abbiamo passato in rassegna, constatiamo che occorrerebbero molte parole per esprimerne il preciso significato. Il motto ci permette dunque di esprimere qualche cosa con uno scarso numero di parole. Ma l’esame induttivo delle “tecniche” evidentemente non basta: occorre vedere in che cosa differisca, p. es., un motto di spirito metaforico da una metafora, un doppio senso spiritoso da un doppio senso che non esprima nulla.

“Che non esprima nulla “, abbiamo detto: questa frase ci avverte dunque che le nostre ricerche debbono volgere ora sulle “tendenze” del motto di spirito: tendenze che appunto si esprimono attraverso di esso. E’ evidente che il poter esprimere una cosa con un risparmio di parole deve, di per sè, produrre piacere; ma è altrettanto evidente che solo una minoranza dei motti di spirito può fondarsi su questo coefficiente, anche se occorrerà sempre distinguere, in base a un criterio che tra poco esamineremo, il semplice fatto del “dire una cosa in breve” da quello di formulare un motto di spirito non tendenzioso.

Che solo una parte dei motti di spirito possano interpretarsi in base al risparmio di parole (e quindi di energia psichica) ad essi inerente, risulta ancor più chiaro quando si noti che, come scrive il Freud, “il piacere che ci dà lo spirito anodino è sempre mediocre; tutt’al più esso pub suscitare nell’ascoltatore un senso definito di soddisfazione e un debole sorriso”: e ciò appunto perché questo genere di spirito riposa sopra la pura tecnica estrinseca, è per così dire privo di energia vitale; vedremo più oltre a che cosa possa ridursi questa tecnica estrinseca. Per ora ci chiediamo, con il Freud, a quali sorgenti la maggior parte dei motti di spirito attingano la loro forza, la virtus per cui essi possono agire così potentemente sugli ascoltatori.

Le tendenze dello spirito vengono ridotte dal Freud a due: “lo spirito ” egli scrive – “è ostile (serve all’attacco, alla satira, alla difesa) oppure è lascivo (spoglia) “, indipendentemente dalla tecnica impiegata. E’ facile raccostare questo dualismo a quello primordiale degli istinti, accentuato dal Freud in altri lavori: libido e aggressione, istinti dell’Eros e istinti della morte. I1 Freud dà numerosi esempi di come un motto possa ricondursi all’una o all’altra, od a tutte e due insieme queste tendenze; e fa notare di sfuggita un particolare che a noi sembra importante: che cioè spesso la soddisfazione che si prova attraverso lo sfogo della tendenza aggressiva o libidica, concessaci dal motto, ci fa sorvolare sulla tecnica del motto stesso: tecnica la quale ci appaga, in questi casi, anche se rudimentale e imperfetta.

E’ evidente poi che le quattro specie di spirito tendenzioso che il Freud enuncia verso la fine del secondo capitolo del suo lavoro (spirito lascivo, aggressivo, cinico, scettico) si riducano a due, in quantochè i modi cinici e scettici dello spirito non sono che forme dello spirito aggressivo. Giova dire, a questo punto, che il dualismo delle tendenze dello spirito non è molto sottolineato dal F., né esplicitamente raccostato al dualismo degli istinti: ma sorge spontaneo il raccostamento a chi abbia seguito il pensiero del maestro viennese attraverso le sue opere posteriori a questa, che è stata composta nel 1905.

Abbiamo sin qui considerato: da un lato la tecnica del motto di spirito, assimilabile al meccanismo del risparmio; dall’altro le sue tendenze, riconducibili agli istinti primordiali. Come considerare ora con uno sguardo d’assieme, in sintesi, il motto?

Dopo aver passato rapidamente in rassegna le tecniche del motto di spirito, abbiamo ricordato che esse avevano, quale caratteristica estrinseca comune, il risparmio. Ma tale caratteristica non è per caso anche propria al motto tendenzioso, anche in quanto tendenzioso? Sì certo, e il risparmio questa volta è intrinseco, consiste nel superare un’inibizione. Un motto di spirito aggressivo toglie di mezzo l’inibizione psichica che frenava l’aggressione; e poiché l’inibizione stessa costituiva uno sforzo, il motto di per sé è un risparmio di energia psichica.

Ma allora occorre vedere se il risparmio rilevato a proposito delle tecniche del motto sia poi veramente e soltanto formale. Già il semplice buon senso ci dice di no, poiché altrimenti tutte le frasi riassuntive sarebbero motti di spirito, anche se non tendenziosi. E ci accorgiamo anche di no pensando a qualche caso di spirito non tendenzioso, fatto, si può dire, di pura tecnica: p.es. a un calembour, a una frase che ci fa ridere e sorridere perché fondata su assonanze, scambi, inversioni di significati. La famosa frase attribuita a Schleiermacher: “Eifersucht ist eine Leidenschaft, die mit Eifer sucht, was Leiden schafft”, per quanto sostanzialmente assai stupida, ci fa sorridere, ci procura un piacere. Come può interpretarsi questo piacere sotto la specie del risparmio psichico? Freud risponde con un buon fondamento che in casi come questi il risparmio è dato dall’allentarsi dei freni della logica, delle regole del discorrere, del ragionamento, oppure dal fatto di ritrovare il già noto. Si ha un risparmio di energia psichica sia a parlare “come viene”, sia a ritrovare per mezzo di assonanze, allusioni, modifica di frasi, ecc. cose già note laddove ci si aspettava di dover impiegare un certo sforzo per assimilare cose nuove. Si conosce, indipendentemente dal campo dello spirito, il piacere che dà il ritrovarsi fra gente amica, nella propria casa, dopo essersi stancati, aver fatto incontri spiacevoli, ecc. Il Freud mostra come queste forme di risparmio psichico si applichino ai vari gruppi di tecniche considerate.

Di che genere è, ora, questo piacere dato dal risparmio inerente alle tecniche, e che il Freud chiama piacere del non senso?

Esso è proprio soprattutto del bambino, che si diverte, come ha scritto il Groos, a sperimentare in un modo ludico il patrimonio costituito dal suo vocabolario materno. Nelle varie età questo piacere riappare in forme diverse; provocato dapprima da una causa che sfugge quasi totalmente all’analisi (il piacere primordiale del ritmo, della rima può ridursi genericamente alla tendenza a ripetere, ma è quanto mai difficile ad approfondire), diventa poi un piacere dovuto al fatto che quelle espressioni sono inibite dalla ragione, eludendo la quale si ottiene appunto un risparmio d’energia psichica. Eccoci dunque, sia pure ancora schematicamente, alla psicogenesi del motto di spirito. Ci accorgiamo ora che le cosiddette tecniche non sono soltanto proprie allo spirito, sono piuttosto modi di ottenere piacere; e che quindi altri processi psichici possono adoperarle (Freud stesso ha rilevato che le tecniche dei motto somigliano ai procedimenti del sogno). Caratteristica dello spirito è invece il giuoco impiegato con le risorse dell’ intelligenza e con l’uso del vocabolario, per far sì che il ritorno provvisorio a forme previamente inibite di pensiero venga ammesso dalla critica: senso e non senso obbediscono qui, come si vede, a complicati scambi di difficile analisi.

La differenza che il Freud pone tra colui che fabbrica il motto di spirito, e colui che l’ascolta, è la seguente: il primo supera un’ inibizione interna, il secondo un’ inibizione esterna. Ma in che modo il primo vince l’inibizione del secondo? Mediante quello che il Freud chiama “piacere preliminare “, e che consiste nei sollecitare, attraverso il piacere formale del motto, il piacere sostanziale dovuto alla liberazione di tendenze inibite: d’onde un piacere finale assai superiore, perché aggiungiamo noi cercando di rendere alquanto più chiara su questo punto la non facile esposizione freudiana si tratta di un piacere senza sentimento di colpa, e ciò che ha tolto il sentimento di colpa alla tendenza che si esplica è appunto la circostanza di potersi esprimere nei modi formalmente propri al motto di spirito.

I moventi ‘ dello spirito, e in particolare la psicologia di chi fabbrica un motto di fronte a colui che lo ascolta, sono lungamente ed elaboratamente sviluppati dal Freud. Noi riterremo soltanto questo: le persone che fabbricano molti motti di spirito hanno in genere una costituzione psichica che li raccosta ai nevrotici. Che colui il quale fabbrica il motto non possa in genere riderne, al contrario di chi lo ascolta, è circostanza su cui il Freud molto a lungo si sofferma, ma che risulta assai chiara da un punto di vista metapsicologico: considerando cioè la situazione economica (in senso psicologico) del primo di fronte a quella del secondo. Il risparmio di energia psichica, nel primo, viene in parte più o meno grande reinvestito nella formulazione stessa, materiale del motto, mentre colui che lo ascolta lo riceve come un dono. S’intende poi che il processo si inverte, e che colui che comunica il motto partecipa ben presto all’allegria suscitata nell’ascoltatore. Questa partecipazione di ritorno non è molto ben chiarita dal Freud, ma non crediamo di errare identificandola con una soddisfazione narcisistica ottenuta facilmente, a “poco prezzo” cosicché anche in questo caso il principio economico del risparmio di energia si fa pur sempre valere.

Ed eccoci alla parte più propriamente psicoanalitica della teoria freudiana del motto. Già abbiamo ricordato, sia pur di sfuggita, le analogie formali delle tecniche del motto con i processi del sogno. In un lucido riassunto di questi ultimi, il Freud mette in evidenza il lato topico della elaborazione onirica, cioè: I) trasporto di resti diurni preconsci nell’inconscio; 2) elaborazione propriamente detta dei materiali onirici nell’ inconscio e relativo loro trattamento secondo le leggi proprie a quest’ultimo: condensazioni, spostamenti, trasformazioni che favoriscono le rappresentazioni (simbolistica); 3) regressione dei materiali onirici così trattati verso la percezione, sotto le cui specie (forma allucinatoria) il sogno si presenta alla coscienza.

Rilevate nelle tecniche del motto queste condensazioni, questi spostamenti e queste trasformazioni, il Freud formula la sua ipotesi relativa al motto in questi termini: “Un pensiero preconscio è affidato momentaneamente al trattamento inconscio, e ciò che ne risulta è immediatamente ricuperato dalla percezione cosciente”.

Varie circostanze confortano questa parte fondamentale della teoria freudiana: anzitutto la “spontaneità” e la “gratuità” della formazione del motto. Nessuno può coscientemente dire: “ora voglio fabbricare un motto di spirito” e lavorarci sopra come si lavora a svolgere un problema. Allorché si “fa” un motto, scrive acutamente il Freud, “si prova un non so che di indefinibile, che somiglia alquanto a un’assenza, a un mancamento improvviso della tensione intellettuale; poi tutt’a un tratto il motto di spirito sorge, quasi sempre già adorno delle parole che lo rivestono”. .

Si pensi ancora, a riprova dell’ ipotesi freudiana, che il motto di spirito è particolarmente soggetto a amnesie, come anche a riapparizioni improvvise: il che conferma la sua analogia con il sogno, e la sua origine incosciente.

Altra riprova : una brusca rivelazione relativa all’ inconscio ci fa ridere. Ed è ben nota questa reazione che tutti noi incontriamo, allorché questo o quello dei nostri conoscenti ridono degli enunciati psicoanalitici relativi all’uno o all’altro dei modi della vita psichica inconscia: ridere che è dovuto tanto al “risparmio d’energia psichica” inerente a una sottrazione di inibizioni, quanto alla considerazione: “si tratta di uno scherzo, di una burla”, e quindi al piacere del non senso di cui abbiamo già parlato. Se non si ride, vuoi dire che le resistenze sono troppo forti, e che il conflitto (dinamico) delle due tendenze si è risolto economicamente in modo favorevole a quella inibitiva.

In base a questa concezione risulta non difficile comprendere le differenze che corrono, p. es., tra il motto di spirito e l’ironia, tra il motto di spirito e lo scherzo. L’ironia, che consiste essenzialmente nel dire il contrario di quel che si vuoi suggerire, ma evitando l’altrui contraddizione, non ha bisogno di fare appello all’inconscio. Lo scherzo è una proposizione non del tutto insensata, che si richiama a processi inconsci, ma il cui contenuto è assai meno importante ed elaborato che non quello dei motto.

Questa, in rapido riassunto, e prescindendo da una enorme quantità di osservazioni a rincalzo, di ipotesi supplementari, di esemplificazioni mediante casi e sottocasi, la teoria freudiana del motto, completata con qualche nostra osservazione che non ci sembra lontana dal pensiero originale del Freud. Aggiungeremo ora poche parole su ciò che il Freud espone intorno alla categoria più generale del comico.

Per il Freud il comico è dovuto a un confronto che si svolge nel preconscio. Anch’egli, come il Kant, il Lipps e tanti altri, considera che nel comico la sorgente del riso è data dalla differenza tra la realtà aspettata e quella percepita. Ma egli interpreta questa differenza, e lo fa, come al solito, su base induttiva, partendo da uno dei tipi del comico, il cosiddetto comico ingenuo. Se un bambino dice, poniamo, a una signorina che starnutisce:”Salute e figli maschi!”, applicando macchinalmente una frase di cui non comprende la portata, noi ridiamo perché nel nostro preconscio si stabilisce un confronto tra l’energia psichica che avremmo impiegato noi per mantenere le inibizioni che ci avrebbero impedito di formulare una simile frase, e il risparmio ottenuto dal bambino, simile a quello che noi stessi bambini avremmo conseguito.

Due punti vanno qui soprattutto chiariti: l’occupamento dell’energia psichica nel sistema Vbw e il confronto coi fanciullo. II primo lo si comprende riflettendo che l’atto psichico, al servizio del quale è stata posta l’energia sovrabbondante, dev’essere isolato, altrimenti l’energia in più non si libera, ma si impiega per vie adiacenti, come appunto avviene se il confronto tra l’adulto e il bambino è cosciente. Solo se l’occupamento dell’energia psichica è precosciente si ha una simile approssimazione all’ isolamento, quale scrive il Freud, “possiamo del resto attribuire anche ai processi psichici del fanciullo “.

Circa il secondo punto, è chiaro che il confronto deriva da un processo di parziale identificazione e di regressione. Il Freud stesso, che pure non sviluppa molto questo lato del problema, chiama occasionalmente il comico ” il ricupero del riso infantile perduto”: riso infantile che sarebbe quello del piacere puro immediatamente riconducibile a sorgenti libidiche o più spesso aggressive. Torneremo tra pochissimo su questo particolare.

Trascuriamo per brevità’ le applicazioni che il Freud fornisce di questa sua teoria del comico, non senza accennare che alcuni tipi di comicità restano assai difficili a interpretare con essa, così come alcune forme del motto di spirito rimangono in ombra nel suo lavoro. Aggiungeremo a questo proposito che gli ormai numerosi e ben noti studi del Reik sul motto di spirito non modificano sostanzialmente nulla della teoria freudiana, e solo approfondiscono forme e quesiti particolari.

Qual è, ora, il rapporto del motto di spirito con il comico?

In base a quanto abbiamo esposto, traspare che questo rapporto può giudicarsi solo da un punto di vista metapsicologico: il motto di spirito richiede un’elaborazione e un contributo da parte dell’inconscio; il comico no. La differenza risiede quindi soprattutto nella localizzazione, esprimibile topicamente così: passaggio dal preconscio all’inconscio e dall’ inconscio alla coscienza nel motto di spirito; situazione precosciente del comico. Freud dice: lo spirito , per così dire, il contributo che proviene al comico dal campo dell’inconscio

Cerchiamo adesso di vedere in quale relazione, storicamente e concettualmente, stiano le teorie freudiane del comico e del motto con le molte altre sinora avanzate. Potremo pronunciarci assai brevemente e solo, in questa sede, schematicamente, e dovremo rinviare alla bibliografia coloro che volessero ulteriormente approfondire questo già scavatissirno campo.

Le teorie del comico, a partire dai più antichi scrittori, hanno seguito due vie: le une hanno cercato di dare dei problema una soluzione naturalistica, fondandosi, in sostanza, sul tentativo di determinare certi sforzi psichici e di precisarne i rapporti quantitativi. Altre hanno invece seguito la via speculativa, considerando immisurabili e incalcolabili gli atti psichici, e adoperando concetti puramente filosofici.

Ai primi appartengono molti pensatori ragguardevoli. Il Kant, nella Kritik der Urtheilskraft, § 54, dice che il riso proviene dall’improvviso risolversi in nulla di un’aspettativa intensa, d’onde oscillazioni decrescenti tra l’una e l’altra rappresentazione; egli propone anche una spiegazione fisiologica del piacere che lo accompagna; lo Spencer, nella sua Physiology of Laughter, scrive che l’impressione del comico nasce da una discordanza discendente ‘, avvicinandosi dunque al Kant; egli immagina che la forza nervosa accumulata non trovi sfogo sufficiente nel piccolo oggetto propostole, e si scarichi attraverso il riso. Su tale teoria si fonda sostanzialmente quella del Lipps, che definisce il comico di situazione come quello che nasce allorché si avverte la piccolezza e nullità di una rappresentazione alla quale si è giunti da un’altra molto grande. Anch’egli parla della forza psichica in eccesso, che si scarica attraverso una oscillazione decrescente (vedi Kant) dalla rappresentazione meschina effettiva a quella primamente attesa.

Lo stesso Freud dichiara, nell’introduzione al suo lavoro, di dovere “il coraggio e la possibilità di arrischiarsi ad esso” all’opera del Lipps. Potremmo dunque stabilire una linea ideale che va dal Kant al Freud attraverso Spencer e Lipps. Ma altri autori ancora appartengono a questa prima serie; e sono principalmente il Hecker, che nel suo lavoro Physiologie und Psychologie des Lachens accenna anch’egli alla ” lotta” e alla “oscillazione”; il Krapelin, che fornisce una teoria più confusa ed empirica, affermando che il comico è dato dalla prevalenza del piacere in un contrasto di piacere e dolore; e, last but not least, il Bergson, che nel suo celebre saggio considera il comico come un quid di meccanico sovrapposto alla vita: tutto ciò che contrasta con l’ elasticità, l’ adattamento ecc., propri alla vita, viene punito dalla società col riso. Il lavoro del Bergson è tutt’altro che scevro di contraddizioni, mascherate sotto una forma elegantissima. Rileveremo soltanto che egli è passato vicino all’ interpretazione freudiana allorché scrive: “Peut être devrions nous pousser la simplification plus loin encore, remonter à nos souvenirs les plus anciens, chercher, dans les jeux qui amusèrent l’enfant, la première ébauche des combinaisons qui font rire I’ homme. Trop souvent surtout nous méconnaissons ce qu’ il y a d’encore enfantin, pour ainsi dire, dans la plupart de nos émotions joyeuses “. Il Bergson non riprende più questo concetto, ma è chiaro che proprio su tale via egli avrebbe dovuto proseguire, per rendersi conto di come l’impressione di “meccanico” possa tradursi nell’ espressione del riso.

Non ci è stata accessibile una tesi presentata nel 1921 all’ Università di Bonn ad opera di Knipp, Das psychologische Problem der Komik, e ci limitiamo quindi a menzionarla; e omettiamo addirittura anche i nomi degli altri numerosissimi autori che si sono occupati della questione. I nostri appunti bibliografici comprendono i titoli di circa un’ ottantina di opere.

All’altra serie appartiene un numero altrettanto cospicuo di pensatori, a cominciare da Platone (Filebo, 29), secondo cui il comico va ricondotto in ultima analisi alla trascuranza del precetto delfico “conosci te stesso” , risultando dalla differenza tra ciò che uno si crede e ciò che uno è; per proseguire con Aristotele (Poetica, V), che ha notevolmente semplificato la complessa definizione platonica, adducendo che il comico è un errore innocuo; e poi con Hobbes , Shaftesbury, Schopenhauer, Viscber , Richter ed altri ancora. Anche il Hobbes ha visto nel comico il confronto, quando scrive che piacciono all’uomo le cose che destano il riso, cosicché egli può, ” comparatione turpitudinis, vel infirmitatis alienae ipse sibi commendatior evadere”. Meglio ancora quando fa rilevare, come abbiamo già notato, l’elemento di superiorità (sudden glory) che si accompagna alla sorpresa. Per lo Shaftesbury, che prelude a filosofi posteriori, il ridicolo è il deforme, ciò che si allontana dalla perfezione dell’idea. Anche per Schopenhauer “il riso nasce dall’incongruenza improvvisamente percepita fra un concetto e gli oggetti effettivi che erano stati, sotto qualsiasi rapporto, pensati per mezzo di esso Questo contrasto, questa incongruenza, sono posti in rilievo da moltissimi scrittori, fra cui Paulsen, K. Fischer, Mendelssohn e lo stesso Goethe. Sorvoliamo sulle teorie del Vischer; ricordiamo che secondo il Richter il comico consiste in un “contrasto infinito tra la ragione e il finito nel suo complesso”; e menzioniamo quella dello Schütze, per cui il comico “è una percezione o rappresentazione, la quale per istanti suscita l’oscuro sentimento che, in quella che l’uomo crede o cerca di operare liberamente, la natura si faccia gaiamente giuoco di lui, per modo che la limitata libertà dell’uomo viene schernita per rapporto ad una libertà più alta ” (trad. Levi). Il Levi, nel suo pregevolissimo lavoro sul comico, ha portato alle estreme conseguenze questa teoria, e concepisce il comico come risultante dal riconoscimento di un’assenza di fini in una persona, o in una cosa personificata: riconoscimento che contrasta con la nozione che abbiamo della vita etica come un libero porsi di fini, e che costituisce una provvisoria liberazione dalla disciplina dei fini stessi. Teoria, come si vede, assai coerente e legittima, per lo svolgimento della quale rimandiamo al lavoro citato; ma che, come tutte le teorie esaminate che parlano di “contrasto”, di “confronto ecc., ha il difetto di non vedere che questo confronto, enunciato in termini di coscienza, non fa affatto ridere, e che al riso è assolutamente indispensabile il contributo dell’inconscio, o quanto meno di quella sua particolare zona che è il preconscio .

Abbiamo dunque constatato, e sia pur di sfuggita, che si può portare la questione su un piano filosofico. Lo sforzo del Levi, p. es., è al riguardo notevolissimo, e non siamo stati noi soli a riconoscerlo. Per una più sottile determinazione delle leggi che governano il comico si deve pero, come bene ha detto il Croce, lasciare il passo alla psicologia. E siamo così ritornati al Freud, da cui ci eravamo alquanto dipartiti.

Critiche alla teoria freudiana del motto e del comico se ne possono fare molte. Il Levi stesso muove al riguardo una quantità di osservazioni, alcune fondate, altre meno. Certo, alcune contraddizioni sono evidenti nel Freud, per esempio laddove egli spiega (cap. III) i vari artifici impiegati per eludere nel motto i freni che c’impedirebbero il soddisfacimento di certe tendenze, e dà al nonsenso una semplice funzione ausiliaria, mentre nel cap. IV gli artifici sono ridotti a uno solo, il giuoco, il nonsenso. Evidentemente neppure al Freud (come a nessuno, pensiamo) sono assolutamente chiari i complicati rapporti metapsicologici che hanno luogo nelle tre zone psichiche in cui si svolge il motto di spirito.

Ma è altrettanto chiaro che al Levi è sfuggita la genialità e la sottigliezza dell’indagine freudiana circa il meccanismo psicologico profondo del motto e del comico; e ciò per evidente difetto di nozioni psicoanalitiche, specie relative all’inconscio.

Il grande punto interrogativo, che resta anche dopo le scoperte compiute dal Freud in questo campo, è costituito dal riso come tale, cioè dal problema inerente a questo tipico, particolare modo attraverso cui si libera l’energia psichica non impiegata.

Ma, prima ancora di questo, che forse è praticamente insolubile, un altro problema si pone: per qual motivo un processo, isolato e determinato secondo gli schemi analitici, suscita il riso in certe persone, mentre in altre pub suscitare disgusto, ira, dolore, ecc.? Dicendo che ciò dipende dai complessi personali degli spettatori o degli ascoltatori non abbiamo fatto che un semplice passo innanzi. Anche il Freud ricorda la locuzione proverbiale tedesca: “Du hast leicht lachen, dich geht es nicht welter an”. In realtà si ride di ciò che non ci ferisce, ossia di ciò di fronte a cui possiamo sentirci superiori.

Alcune osservazioni collaterali ci permettono di intuire qualche barlume ulteriore di verità sul riso: perché, se il piacere di dare sfogo a una determinata tendenza, la quale riesce a sfuggire a determinate inibizioni, ci fa ridere perché, diciamo, non ci fanno ridere tutte le soddisfazioni di tendenze sfuggite ad inibizioni?

Durante l’accoppiamento sessuale, ad esempio, non si ride. Non si ride dando libero sfogo alle proprie tendenze aggressive. Perché, se anche qui le inibizioni vengono tolte, le tendenze hanno libero corso, l’ Es predomina sull’ lo, il principio del piacere su quello della realtà?

A nostro avviso, questo è un punto fondamentale, che occorrerebbe approfondire molto di più. Secondo noi il ridere implica, non un rinnovo di particolari inibizioni, ma un senso di leggerezza e di dominio, dovuto alla soddisfazione narcisistico di poter dar sfogo a certe tendenze senza risentirne danno, e in sostanza padroneggiandole. Questo non mi lede, per quanto possa sembrare pericoloso; io lo domino, quindi ne rido: tale in sintesi, la morale del motto e del comico secondo la nostra concezione, che sul piano analitico si ricollega in un certo senso a quelle di Platone e di Hobbes.

Conferme: se s’incontra un animale, una cosa qualunque che lì per lì ci spaventa, ma che si rivela innocua, si finisce col ridere; così pure: il paziente ride quando gli diciamo di questo o quel suo complesso che egli riconosce come non innocuo, ma di cui non ha paura: altrimenti reagisce con la preoccupazione, lo sdegno, l’orrore. Gli animali, soverchiati dall’istinto, tutti istinto, non ridono.

Ripetiamo: tale nostro concetto andrebbe sviluppato ben più di quanto non possiamo fare in questa sede, insieme a molti altri che qui sono stati appena sfiorati. Esso però, secondo noi, il necessario complemento, da un punto di vista dinamico, di quanto il Freud ha così genialmente chiarito dai punti di vista topico ed economico. Lo studio, dal punto di visia dinamico, delle forze psichiche mobilitate nel motto e nel comico, completerebbe così, a nostro avviso, la descrizione metapsicologica del fenomeno, oggetto di questo piccolo e pur grande problema psicoanalitico.

BIBLIOGRAFIA

Partiti dal semplice intento di corredare la nostra, esposizione, breve e senza pretese, con qualche richiamo bibliografico, abbiamo notato che il materiale era molto, e sparso, e difficilmente reperibile. Ci siamo sforzati allora di coordinano e di arricchirlo, in modo da offrire ai lettori la possibilità di proseguire le ricerche per proprio conto senza dover passare per dove siamo passati noi, cioè dallo spoglio sistematico e paziente di repertori, bibliografie, indici analitici e dizionari speciali. Questa bibliografia, per quanto ampia, non comprende certo che una parte di quanto è stato scritto sugli argomenti del comico, dei motto di spirito, dell’ironia, dell’umorismo e del riso (abbiamo esteso lo nostre ricerche, come si vede, anche agli altri temi, affini a quello specialmente considerato) ; ma crediamo che le opere fondamentali vi siano. Avvertiamo ancora che nella bibliografia non abbiamo tenuto conto se non dei lavori monografici libri od opuscoli od articoli trascurando i passi delle opere filosofiche e scientifiche in cui si tratta dell’uno o dell’altro argomento. Alcune tra queste ultimo opere, con i luoghi rispettivi, sono state da noi stessi citate nel corso del nostro saggio; le altre son richiamate, per la maggior parte, nei repertori del Baldwin o dell’ Eisler.

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