La fata nell’infanzia e nel mito
Circoli n°2 aprile1937

Nel mondo delle leggende e delle fiabe, specie di tipo infantile, si vede emergere sulle altre una singolare figura, che raddolcisce specialmente il folklore celtico in confronto a quello di vari altri paesi: la figura della fata.
Essa ha tale importanza nel mondo fiabesco che si adoperano comunemente, a riguardo di quest’ultimo, espressioni come “racconti di fate”, “oggetto fatato”, e via discorrendo, per indicare il territorio in cui ci si aggira, e gli esseri che vi appartengono.
Per la psicoanalisi, la fiaba è l’espressione più o meno deformata, mascherata e abbellita, di tendenze e di desideri che non possono realizzarsi effettivamente, e che per la massima, parte non possono neppure giungere alla coscienza. Come è noto, la psicoanalisi ha formulato da tempo la propria concezione dell'” inconscio” psichico, concezione dinamica, secondo la quale i contenuti dell’inconscio non sono già qualche cosa di inerte e di inefficiente, ma sono anzi dotati di energie potentissime, danno luogo a condensazioni, a spostamenti, e a conflitti, e, in special modo, trovano comunque delle vie di compromesso per manifestarsi, in forme e maniere che in molti casi sono tollerate dall’Io e dalla società, mentre in altri provocano ogni sorta di disturbi e di danni all’individuo e al suo prossimo.
È inutile soffermarsi adesso a descrivere queste., vie, di alcune delle quali – p. es. il sogno- tutti hanno qualche esperienza. Ci limiteremo a riaffermare che anche nelle fiabe, come nei miti, nelle leggende, ecc., molte tendenze e molti desideri inconsci riescono ~ trovare uno sfogo – sebbene, ripetiamo, modificati in guisa da poter essere tollerati e anche graditi dall’Io.
Quelle dell’adattamento alla realtà e del dominio delle proprie tendenze istintive sono due esigenze alle quali l’individuo, nel proprio sviluppo, si arrende solo per gradi. Il bambino molto piccolo, come è noto, vive una parte della propria vita psichica in un mondo completamente irreale, e si suppone con buon fondamento che alcune delle sue primissime soddisfazioni abbiano addirittura carattere allucinatorio. Ma non vi è bisogno di considerare il neonato per notare lo scarso dominio che il bambino, sino ad una certa epoca., ha sui suoi istinti e tendenze. Sono appunto compiti dell’educazione quelli di rendere il fanciullo sempre più aderente alla realtà, e di insegnargli a dominare la propria vita istintiva.
Ma poiché – come si è accennato- questi adattamenti si possono compiere soltanto per gradi, e poiché sarebbe sommamente pericoloso reprimere sic et simpliciter le spontanee tendenze della psiche infantile, Occorre pur concedere a questa qualche sfogo: da un lato, cioè, occorre permettere, con le debite precauzioni e, nelle dosi giuste, che il bambino si riposi ogni tanto della lotta continua che deve compiere per adattarsi alla realtà, e trovi rifugio in un mondo in cui accade tutto ciò che si pensa e si vuole; dall’altro è necessario concedere che il bambino, il quale nei primi anni della sua vita attraversa -come la psicoanalisi ha dimostrato – importantissime situazioni di conflitto psichico, trovi espresso almeno in forma fantastica e modificata una parte di ciò che non può direttamente palesare, e che viene anzi ben presto relegato nel suo inconscio. Tali funzioni di alleggerimento e di sfogo sono assolte principalmente dalla fiaba e dal giuoco, in forme che talora si compenetrano e si completano, bella progressiva evoluzione infantile.
Beninteso, e lo ripetiamo, sta nel buon senso degli educatori commisurare la qualità e la quantità di questo cibo fantastico alle condizioni di ogni singolo bambino in ogni singola situazione ed epoca di sviluppo. In primo luogo, occorre essere ben sicuri del sostanziale distanziamento che il bambino deve poter operare tra ciò che è fiaba e ciò che è realtà: il bambino deve cioè rendersi conto che si tratta appunto di fiabe, e non credere, come purtroppo spesso accade, che esistano realmente castelli incantati, montagne, d’oro o principi trasformati in topi. In secondo luogo occorre particolarmente evitare le fiabe a contenuto terrificante, che possono dar luogo a veri e propri traumi, come quelle, disgraziatamente assai diffuse, in cui compaiono orchi divoratori di fanciulli, scene di tortura, e via discorrendo. Ma soprattutto è necessario tener presente che la fiaba deve rendere meno penoso il progressivo adattamento del bambino alla realtà, ma che questo è pur sempre l’obiettivo finale da raggiungere. Altrimenti si rischia di sbagliare completamente la mira, di distogliere il fanciullo dalla realtà anziché avvicinarvelo, e di lasciare che nel suo inconscio si mantengano fortissime esigenze di carattere irreale ed arcaico, le quali più tardi, trovandosi in contrasto con situazioni reali penose, potranno dar luogo a disturbi psichi ci anche gravi.
Ma non vogliamo qui insistere su quelli che, secondo il nostro modo di vedere, sono i criteri pedagogici da seguire per ciò che riguarda la maggiore o minore opportunità di raccontare fiabe ai bambini. Ci basta aver sommariamente mostrato come la psicoanalisi non consideri affatto le fiabe nel modo con cui abitualmente si suole considerarle, cioè come cose futili e trascurabili per lo sviluppo e l’orientamento della psiche infantile; e la psicoanalisi se ne occupa a ragion veduta, in quanto conosce bene l’anima del bambino, tiene conto delle sue esigenze e dei conflitti profondi che si svolgono nel suo ambito, e può altresì indicare con molta precisione il senso e la portata di una fiaba, considerandola alla luce dei fondamentali criteri interpretativi adottati con tanto successo nell’esplorazione dei sogni e di moltissime altre espressioni larvate dell’inconscio. Si può, cioè, andare oltre la superficie variamente mossa e colorata delle fiabe, cercar di risalire alle sue fonti più intime, entrare in più vivo contatto con le diffuse esigenze di carattere inconscio che hanno dato loro origine. Come esaminando un sogno, e valendosi di una tecnica appropriata, si riesce a scoprire dietro un « contenuto manifesto» un «contenuto latente» assai più importante e significativo, analogamente se pure in genere con minuzia e precisione minori è dato accostarsi al « contenuto latente» di una fiaba, come di un mito, come di una leggenda. Le già numerose applicazioni del metodo psicoanalitico a queste espressioni della psiche popolare ed infantile hanno gettato luci notevoli su prodotti della fantasia che venivano prima interpretati senza alcun criterio veramente sistematico e casuale, e hanno recato contributi di prim’ordine all’etnologia alla demopsicologia, alla storia delle religioni, ecc. Tali, per esempio, gli studi di Rank, di Reik, di Roheim, per non citare alcuni brillanti lavori dello stesso FREUD.
Ma come si giunge, nel caso del1e fiabe e dei racconti mitici e leggendari, a una comprensione più o meno profonda e completa del loro riposto significato? Come è ormai abbastanza noto, nell’analisi dei sogni uno dei più validi aiuti è fornito all’analista dal contesto delle associazioni ideative che il sognatore, in particolari condizioni di quiete mentale, è in grado di recare per ogni singolo elemento del sogno stesso. Questo aiuto manca, m’è ovvio, allorché si tratti di interpretare il senso celato di una fiaba o di un mito. Ma la psicoanalisi, sulla base di un numero grandissimo di esperienze e di reperti, è giunta all’accertamento di molti meccanismi tipici dell’inconscio, come pure a quello di tutta una serie di equivalenze simboliche. Si tratterà dunque, caso per caso, di vedere se l’applicazione e il richiamo di tali meccanismi ed equivalenze dia o meno un senso più chiaro e soddisfacente al variopinto tessuto fiabesco. Si può aggiungere che mentre i sogni contengono sempre una forte « equazione personale», cosicché non è in genere possibile interpretarli profondamente in base al solo esame, anche compiuto secondo criteri analitici, del contenuto manifesto, nel caso delle fiabe e dei racconti leggendari ci si trova per solito di fronte a espressioni di esigenze molto generali e di carattere collettivo, a un numero davvero non troppo grande di « temi conduttori» fondamentali, di cui soventi volte riesce difficile riconoscere l’andamento ed il tono. Per fare un solo esempio: l’aver scoperto in modo inoppugnabile che per l’inconscio l’acqua e l’uscire dall’acqua rappresentano la maternità e il parto, ha permesso di capire un po’ meglio quale sia il fondamento psicologico dei miti, racconti, e fiabe in cui il protagonista, l’eroe, il principe, ecc. giunge dal mare o vien trovato, bambino, in un canestro che galleggia sul fiume, e simili. Si può star sicuri che ogni qual volta, in un racconto popolare, ci s’imbatte nella principessa che trova il bambino abbandonato sulle rive di uno stagno o di un fiume, e che pietosamente lo adotta, ciò sta a significare la maternità, nei riguardi di quella figura femminile. Il significato è così sicuro per l’inconscio, che -come spesso avviene quando un suo contenuto è portato alla coscienza- è facile riderne, e che su esso si sono costruiti scherzi e motti di spirito. Un insegnante -si narra- chiese a un suo scolaro notizie intorno all’infanzia di Mosè, e lo scolaro rispose che Mosè era figlio di una principessa egiziana. Avendogli il maestro ricordato la tradizione biblica, la storia del canestro trovato fra le canne, sul fiume, ecc. lo scolaro riflette un momento e poi replicò: “Capisco: questa dev’essere stata la versione della principessa “.

Ma rivolgiamoci ora più da vicino alle fate, al loro aspetto, al loro comportamento, al loro strano mondo. La fata ci appare di solito, nelle tradizioni e nelle fiabe, come una donna bellissima, dalla voce armoniosa, dagli abiti spesso bianchi o azzurro cielo, di una ricchezza e insieme di una vaporosità e delicatezza supreme. Può assumere mutevoli sembianze, e comunicare questa sua prerogativa ad altri. Il suo mondo è quello delle rocce, delle caverne, dei boschi, delle sorgenti; presso vari popoli si ritiene che le fate abitino in un regno sotterraneo, o subacqueo. Pronte, ad intervenire in difesa dei loro protetti, ad esse si rivolgono gli eroi delle fiabe come all’estrema ancora di salvezza, all’ultima via di scampo. Chi è da loro aiutato può compiere prodigi e azioni sovrumane, traversare fiumi e mari, affrontare pericoli spaventosi, rendersi invulnerabile e invincibile. ,Le fate appaiono spesso in momenti decisivi della vita umana: nascita, nozze, partenze per viaggi rischiosi, situazioni di estremo pericolo. Il carattere superiore, magico, ineluttabile del loro intervento è posto in evidenza dalla stessa etimologia della parola “fata “‘, parola che è, né più né meno, il plurale del Fatum latino, l’alto destino che regge le azioni degli uomini.
I rapporti fra il mondo delle fate e quello umano sono quanto mai curiosi e caratteristici: la presa di contatto fra l’uno e l’altro, e la cessazione di questo contatto, avvengono di solito bruscamente, con un salto netto, senza sfumature. La fata compare e scompare con una subitaneità simile all’apertura e alla chiusura di un diaframma, al momentaneo aprirsi e richiudersi di un velario di nebbia che discopre e poi cela un meraviglioso panorama. L’individuo che alla mezzanotte, nella foresta incantata, ha visto improvvisamente scendere corteggi di fate lungo i raggi lunari, ed ha assistito poi, per attimi che si rivelano secoli, o per secoli che appaiono attimi, alle loro danze, leggiadre entro un cerchio d’erba e di fiori, le vede poi disperdersi e svanire alla prima luce dell’aurora, e si ritrova solo e senza conforto di fronte alla nuda realtà delle cose. L’incantesimo- si suoi dire – è spezzato. Anticipando un poco su quel che diremo più oltre, osserviamo, che, tale frattura è molto simile a quella che si verifica tra il mondo del sogno, quello della veglia. Tesori, felicità, paradisi sognati, tutto scompare all’alba, allorché si pensa con rammarico: “Non era che un sogno!”. Anche la circostanza ben nota relativa alle dimensioni delle fate, che spesso vengono raffigurate come assai piccole, e che in genere mutano sovente di statura, ricorda frequenti microimmagini e alterazioni dimensionali del mondo onirico, assai conosciute e studiate dagli indagatori.
Ma, che cosa può dirci la psicoanalisi intorno a queste creature della fantasia popolare ed infantile? La risposta a tale domanda non è semplice: si tratta, anzitutto, di riconoscere a qual elementi centrali della vita psichica inconscia possa ricondursi la figura della fata- la quale, in base a quanto abbiam detto, non può esser altro che una proiezione trasformata e idealizzata di un’immagine interna ed inconscia, caratteristica della psiche primitiva. La corrispondenza principale tra la figura esteriore della fata e il suo profondo significato ci apparirà, credo, chiarissima, sol che si considerino da vicino alcune fiabe in cui tale figura compare. Consideriamo per prima una delle più dolci e deliziose immagini di fate fra quelle che allietarono la nostra fanciullezza: la”Fata dai capelli turchini ” delle immortali Avventure di Pinocchio.
Non ci risulta sia stato osservato ancora che la figura della “, Fata dai capelli turchini”, nel c1assico libro del Collodi, presenta caratteristiche e mutamenti del tutto impensati e apparentemente gratuiti. La sua prima comparsa nel racconto, è forse l’episodio meno comprensibile fra tutti quelli che la riguardano. Pinocchio, inseguito dai due assassini, giunge a una casetta sull’orlo di un bosco, e bussa disperatamente in cerca di salvezza. “Allora -scrive il Collodi- si affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini, il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale senza muovcr, punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo: “In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti “. ” Aprimi almeno tu! -gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi. “Sono morta anch’io”. “Morta? E allora che cosa fai costì alla finestra? “. ” Aspetto la bara che venga a portarmi via “. Appena detto così, la bambina disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore”.’
Nessun motivo palese, in nessun luogo del contesto, sembra giustificare questa stranissima presentazione; la quale trova un richiamo – questa volta però in guisa un po’ meno irrazionale – in uno dei capitoli successivi. La Fata ( “perchè bisogna sapere” scrive il Collodi “che la bambina dai capelli turchini non era altro, in fin dei conti, che una buonissima Fata, che da più di mill’anni abitava nelle vicinanze di quel bosco”) – la Fata, alla quale sin dall’inizio sembra assai poco addirsi l’appellativo di ” bambina “, salva Pinocchio dalla morte, lo protegge, gli dà dei savi consigli, lo istrada sulla via del dovere, si comporta diciamolo pure sin d’ora – come una buona mamma; e Pinocchio ne fa di nuovo delle sue, l’abbandona, la perde di vista, e quando, dopo parecchio tempo e varie avventure, torna alla Casina bianca, trova al posto di questa una lapide, con le seguenti parole: « Qui giace la Bambina dai capelli turchini, morta di dolore per essere stata abbandonata dal suo fratellino Pinocchio, “. Per la seconda volta l’idea della morte si associa a quella della buona Fata, provocando lo strazio e la. disperazione indicibili del burattino. Sin da ora possiamo chiederci se si debbano considerare questi particolari, che appaiono così estranei, specie il primo, al resto del racconto, come del tutto casuali, oppure no: e, in questo secondo caso, quali mai possano essere le loro determinanti. Perchè vien fatto di chiedersi la fata sin dal principio si presenta come una morta? E perché le marachelle di Pinocchio vengono punite con una nuova apparente morte della sua protettrice? Cercheremo tra breve di veder più chiaro circa questo punto. Per ora rileviamo altri particolari interessanti relativi alla « Fata dai capelli turchini », e a come essa muti nel corso della narrazione. Sul principio, essa è una figura quanto mai irreale e misteriosa: appare la prima volta come un fantasma; dispone di mezzi magici; rivolge ordini ad animali parlanti che stanno al suo servizio; vive in stanze« dalle pareti di madreperla ». Dopo si umanizza, non è più neanche nominalmente una bambina, bensì una giovane donna, e si fa chiamare “” sorellina» da Pinocchio. Più tardi ancora, quando questi impensatamente la ritrova nell’isola delle Api industriose, è una donna fatta; le sue caratteristiche materne sono ancora più accentuate; è scomparsa ogni traccia della sua appartenenza a un mondo magico e non umano. Essa farà effettivamente, d’ora innanzi, da madre al burattino; il quale non la chiamerà più né “Bambina” né ” Fata “, e non le darà più del « voi », ma del « tu », rivolgendole sempre il dolce appellativo di « mamma”.
Non è certo difficile vedere -poiché ciò appare quasi esplicitamente dichiarato nel raccolto del COLLODI – che la « Fata dai capelli turchini» è né più né meno che un’immagine di madre buona e consolatrice, che ogni tanto sgrida e blandamente punisce, ma presso cui il bambino può rifugiarsi come in un porto sicuro, quando si vede o si ritiene minacciato dagli eventi del mondo. Pinocchio stesso, in uno degli ultimi capitoli, a una domanda rivoltagli: «E chi è questa Fata? », risponde senz’altro: « È la mia mamma, la quale somiglia a tutte quelle buone mamme, che vogliono un gran bene ai loro ragazzi e non li perdono mai d’occhio, e li assistono amorosamente in ogni disgrazia… ». Il tono moralizzatore di queste frasi fa subito comprendere cbe chi parla qui è non già Pinocchio, ma l’autore stesso. Si ha l’impressione che il COLLODI, spinto dalle proprie intime esigenze a dar vita a una soave figura materna, l’abbia a tutta prima costretta in schemi fantastici, assunti dalla tradizione celtica – allo scrittore fiorentino notoriamente familiare -: e che poi l’immagine stessa si sia progressivamente svincolata dagli schemi anzi detti, apparendo finalmente in tutta la sua umanissima primarietà. L’evoluzione della « Fata dai capelli turchini », se si osserva bene, è, di fatto, una marcia a ritroso nel tempo: occorre cioè rovesciare l’andamento della narrazione per capirlo; e allora la poetica figura presentata ci dal COLLODI è veramente in primo luogo la madre, poi la sorella ideale, quindi la Fata. Analogamente si evolve, per l’individuo e nella vita, 1’« imago » materna; poiché è al bambino piccolo che la madre appare nella sua più vera e squisita funzione, di donatrice di vita, di nutrice, di protettrice; mentre all’uomo adulto è più propenso a considerare la madre come una sorella maggiore, in cui si ha stima e fiducia; e l’immagine della madre morta, infine, si colora di tutte le tinte ideali e fantasiose che mette a nostra disposizione l’amore oltre la. tomba, col suo corteggio di credenze animistiche e di pii sentimenti cultuali. Se dunque applichiamo al racconto di COLLODI una semplice ed evidentissima equazione simbolica (Fata, = madre), e al tempo stesso lo consideriamo cronologicamente invertito, secondo un meccanismo tanto frequente nei sogni e ben studiato dalla psicoanalisi, ecco che il significato profondo della « Fata dai capelli turchini » ci appare nella sua più vera luce. E come suggello alla nostra interpretazione ci giungono testimonianze verbali e scritte, alcune notizie che rimuovono ogni dubbio Il Collodi, primo di nove fratelli, nutriva per la madre un affetto intensissimo, d’altronde pienamente ricambiato. “Finche visse la sua mamma”; -scrive un suo parente – « non si coricò una sera senza chiederle un bacio e la sua benedizione, Le dava del lei e la trattava coi riguardi dovuti a persona di alta levatura. Spesso sottoponeva al giudizio di lei i suoi lavori, facendo tesoro dei consigli che la madre si permetteva dargli…». (Giova notare, tra parentesi, che la madre del Collodi era donna di umili condizioni, e assai incolta), L’attaccamento dello scrittore alla figura materna era tale, che persino nel suo nome egli volle ricordarla, esserle indissolubilmente unito. Quello di COLLODI, infatti, come ognun sa, non era il vero nome dell’autore di Pinocchio, che si chiamava LORENZINI; era il nome del paese di nascita della madre. Nessuna meraviglia, quindi, che il culto e l’adorazione rivolti alla. memoria della madre, e il dolore profondo relativo alla morte di lei (morte anteriore al Pinocchio), abbiano confluito in modo da orientare il COLLODI, allorché questi fu sul punto di dar vita alla figura più squisitamente materna della sua opera, nel senso della rammemorazione inconscia, e pur così riuscita nella sua sorprendente autenticità, della madre-fata, dal “viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto”, morta, spettrale e bellissima.
Possiamo, però, estendere senz’altro la conclusione, cui siamo giunti per questa fiaba moderna, alla figura della fata quale essa. ci si presenta in altre fiabe,e nel folklore in genere?
Riteniamo senz’altro di sì; ma ci affrettiamo subito a dire che occorrerà volta per volta tener conto delle diverse deformazioni e sovrastrutture cui la fantasia degli autori, noti od oscuri, individuabili od anonimi, ha sottoposto il tema originario. Come una data situazione onirica può esser rappresentata in tante forme diverse per quanti sono i sognatori, pur rimanendo univoco e non dubbio il suo significato fondamentale, così sui motivi esterni scaturiti dalle esigenze inconscie si son ricamati i più vari e policromi adornamenti fiabeschi. Si tratterà, caso per caso, di saper leggere fra le righe, e di sottoporre a un lavoro d’interpretazione, sempre nuovo nel suo peculiare andamento, e in cui si mostreranno più o meno l’acume e l’intuizione degli indagatori, i differenti « contenuti manifesti » delle singole narrazioni.
Nella fantasia come nel sogno -abbiamo detto più sopra- la psiche collettiva, e specialmente quella infantile, si concede appagamenti e soddisfazioni che nella realtà non sono consentiti, e a cui si oppongono anzi sovente delle esigenze contrarie, per le quali quelle soddisfazioni e quegli appagamenti sono soggetti a veri. e propri tabù, che non è lecito infrangere sotto pena di incorrere in gravissime punizioni. Una tra le più tipiche tendenze arcaiche ed inconsce, che possono -purché larvate e deformate- trovar soddisfazione nel mondo onirico e favolistico, mentre il loro appagamento diretto urta contro poderose barriere elevate in secoli e millenni di evoluzione individuale e sociale – è ad esempio quella dell’incesto, che il RANK in particolar modo ha saputo rintracciare nelle più varie espressioni dell’anima popolare, e partire da epoche a noi lontane per arrivare fino ai giorni nostri. Il parallelo tra il subitaneo apparire e sparire del mondo cui appartengono le fate, il senso di iato e di frattura che contraddistingue il passaggio dal mondo reale a quello dei sogni e viceversa, acquistano un più profondo significato qualora si considerino i rapporti dell’Io onirico con la vita e l’ambiente del sogno in confronto a quelli dell’Io desto con la realtà. Una diffusa, anche se per lo più inconscia legge discriminativa separa, in entrambi i casi, nettamente i due mondi: non è lecito compiere nella realtà e nella veglia ciò che può esser concesso nella fantasia e nei sogni; non è lecito trasportare nel mondo quotidiano l’atmosfera e le esperienze del regno delle fate. L’uno e l’altro territorio restano in sostanza estranei, non comunicano tra loro se non per la via del ricordo. Perciò, all’individuo che ha avuto rapporti con le fate, il mondo reale, nudo e disadorno, si ripresenta come al riscuotersi da un sogno; perciò, anche, gli è inibito, in un’infinità di fiabe e di leggende, palesare ad altri le sue esperienze; se infrange il divieto, egli vien punito nei modi più vari, uno tra i quali è la definitiva e totale impossibilità di riprender contatto con la sfera meravigliosa in cui si è occasionalmente trovato. Potremmo dire, in altre parole, che su chi tentasse di trasportare nella realtà le soddisfazioni della fantasia, o su chi non sapesse trattenere nell’inconscio i contenuti psichici ivi relegati, incombe la minaccia che anche queste soddisfazioni gli vengano impedite – oppure altresì la minaccia inversa, che egli sia cioè costretto in sempiterno a vivere nel mondo dei sogni e dell’irreale: questa la spada di Damocle a due tagli che garantisce i confini tra i due mondi, e la loro inviolabilità.
Tutto ciò apparirà più chiaro se ci rivolgeremo ad un altro esempio di fiaba, che a tutta prima è meno accessibile di quello testé considerato, poiché le tendenze che in esso si manifestano sono più lontane dalla coscienza, sono cioè, usando il termine psicoanalitico, più profondamente « rimosse ». Si tratta questa volta di una fiaba medioevale, narrataci in un lais di MARIA DI FRANCIA (XII secolo): la fiaba di Lanval e della sua fata.
Lanval, cavaliere del re Artù è “stato trascurato e dimenticato in una distribuzione di doni, largiti dal re stesso alla sua corte. Mentre solo, moralmente abbattuto e materialmente miserabile, il cavaliere è in preda alle più malinconiche riflessioni, gli appare sui bordi di un rivo, lungi dal mondo, nella solitudine di un prato fiorito, una fata meravigliosamente bella, dall’aspetto e dagli ornamenti regali, che gli offre il suo amore. Lanval, rapito dalla sua bellezza, se ne,innamora perdutamente. « Per voi -egli dice- lascerò il mondo; mai non vorrò separarmi da voi; nulla più di voi io desidero ». Ma 1a fata solennemente lo avverte. « Amico, io vi metto in guardia, vi raccomando, vi prego di non rivelar nulla ad alcuno. Se non mi perdereste per sempre. Se questo amore fosse conosciuto, mai più potreste vedermi, mai più godere della mia persona ». Lanval promette, ed eccolo ricco e felice, a tal segno che a mala pena può credere a ciò che gli accade. Ma un giorno, a corte, la regina lo scorge e gli offre amore ‘a sua volta. Lanval, dichiarandosi fedele al re, rifiuta; ma poiché la regina, irritata, gli rivolge un’accusa infamante, scatta, e dimentico della promessa, esclama: « Amo e sono amato da una dama che supera di gran lunga tutte quelle che io conosco. Tenetevelo per detto: la più povera delle sue ancelle vale più di voi, o regina, per bellezza e per bontà ». Ecco che il segreto è violato; la fata ricusa, quindi innanzi, di presentarsi ai suoi richiami. Per giunta la regina, doppiamente offesa, accusa. Lanval, secondo uno schema identico a quello biblico (episodio di Giuseppe e della moglie di Putifarre), di averle rivolto proposte disoneste. Avendole essa -così dice- respinte indignata, Lanval per vendicarsi si è vantato di avere una dama assai più bella di lei. Il re fa sottoporre Lanval a un processo, nel quale vien deciso che egli, per giustificarsi, dovrà far comparire davanti alla corte la bella dama tanto decantata. Invocata in un supremo appello da Lanval, la fata, preceduta da bellissime ancelle, compare infine in tutto il suo sovrumano fulgore. Lanval è prosciolto, ma la fata si allontana senza volgergli uno sguardo. Disperato, il cavaliere l’attende passare, e si slancia sul cavallo di lei. Essa non lo respinge, ed entrambi scompaiono per sempre, diretti al fantastico reame di Avalon, l’esilio dell’antica mitologia bretone.
L’applicazione di alcuni criteri psicoanalitici ci permetterà, anche questa volta, di spiegarci il contenuto latente della fiaba, forse la più bella e riuscita di MARIA. DI FRANCIA. Una vasta esperienza, di cui qui non possiamo riferire se non i risultati finali, ha permesso alla psicoanalisi di ravvisare nel re e nella regina delle fiabe e delle leggende i simboli rispettivamente del padre e della madre. Tale equivalenza, sia detto di passaggio, è poi particolarmente evidente nei sogni. La psicoanalisi, inoltre, ha da gran tempo chiarito e approfondito la situazione psichica che il maschietto, in un’età precoce, attraversa nei confronti dei propri genitori (attaccamento amoroso della madre, sentimenti misti, di ammirazione e di rivalità, verso il padre): situazione a cui il FREUD ha dato il nome, richiamandosi alla nota leggenda greca, di « complesso edipico », e che ben presto, come tante altre situazioni della vita infantile, viene « rimossa », ossia relegata nell’inconscio. Se dunque, a proposito del lais di MARIA. DI FRANCIA, consideriamo il re e la regina come rappresentanti dei genitori, vediamo subito quale sia la colpa di cui Lanval viene accusato: si tratta, una volta di più, dell’infrazione all’antico tabù dell’incesto.
Ma Lanval -si obietterà- non è affatto colpevole di ciò! Si tratta di un’accusa ingiusta e infondata rivoltagli dalla regina! L’obiezione è valida solo in apparenza, ma non tiene conto del tipico meccanismo deformatore, esponente di una sorta di “censura” psichica, che consiste, in questo come in tanti altri casi, nel velare un contenuto tendenzioso dell’inconscio con l’attribuirne la responsabilità ad altri, e sovente alla persona stessa che forma oggetto della tendenza (proiezione). Se supponiamo cioè che non già dalla regina, ma proprio da Lanval fosse partita l’iniziativa, allora la fiaba si chiarisce ancor di più, e la situazione edipica vi appare nettamente realizzata: Lanval ci si presenta come un rivale del padre, nei confronti della persona materna.
La figura della fata, peraltro, abbellisce e arricchisce straordinariamente il contenuto che altrimenti sarebbe fin troppo consueto e quasi banale della narrazione fiabesca. Anche a Lanval, come a tanti altri eroi leggendari, la fata appare improvvisamente, e in guisa lo abbiamo visto da lasciarlo in forse se si tratti oppur no di un sogno. Chi è dunque questa fata? La risposta, in base a tutto ciò che abbiamo sin qui detto, non può esser dubbia: è anch’essa un’immagine materna, che conforta, alimenta e protegge, ed è un’individualità con cui è lecito avere rapporti amorosi, poiché si tratta soltanto di una figura del sogno e della fantasia. Analoghe « duplicazioni» di una singola immagine, che viene scissa secondo una fittizia, nettissima discriminazione delle sue caratteristiche fondamentali (la persona buona e quella cattiva, quella ideale e quella reale, ecc.) sono frequentissime nelle espressioni dell’inconscio. Per limitarci a quel che riguarda le fate, e la figura materna, ricorderemo due altri esempi: la leggenda di Lancillotto, che viene allevato in fondo a un lago dalla fata Viviana (qui il simbolo della maternità è appariscentissimo), e che poi, nella vita adulta, tradisce il proprio re con la regina Ginevra; e la favola di Cenerentola, in cui la polarizzazione secondo l’antitesi buono-cattivo è realizzata nelle due figure della buona fata e della cattiva matrigna. Similmente nella fiaba di Lanval: la fata sorge da un rivo (= maternità), e appare a Lanval mentre egli riposa, disteso, col capo appoggiato al suo mantello. Egli è amato dalla fata, e la riama. Ma i loro rapporti, per poter sussistere debbono rimanere confinati nell’irreale, nascosti a tutti, segreti (ovverosia: lontani dalla coscienza e da ogni possibile attuazione). Lanval contravviene -secondo la nostra interpretazione – al divieto, tende ad avere rapporti non già immaginari, ma reali, con la persona che rappresenta la madre di carne e d’ossa, infrange il confine tra i due mondi e il tabù dell’incesto. Viene perciò accusato e processato. La. sua assoluzione dà solo una parvenza di ottimismo al racconto, giacché egli può sottrarsi alla condanna nel mondo reale solo relegandosi per sempre nell’altro; e il suo ultimo allontanarsi insieme alla fata, verso l’isola, di Avalon, esprime in modo quanto mai poetico ed efficace questo scomparire dalla scena della realtà di chi alla realtà non si è saputo adattare, e, che migra per ciò c senza. Possibilità di ritorno alla volta dei regni del mito, del sonno eterno e della morte.

Troppo lungo sarebbe, naturalmente, recare ulteriori esempi e conferme di quanto siamo andati esponendo: ma. non sarebbe difficile ritrovare in altre storie di fate motivi analoghi a quelli che abbiamo esaminato. S’intende che la figura della fata può arricchirsi di altri significati in conseguenza di altre elaborazioni e coloriture; e che sull’immagine materna, che ne costituisce la radice fondamentale, possono innestarsi altre immagini secondarie e per così dire di sviluppo, come per esempio quella di una donna ideale, di una donna “fatale”, (si osservi il legame anche fonetico di questa espressione con la parola. “fata”), e via discorrendo. Accanto alla fata, che rappresenta la madre quale appare di solito all’anima del bambino, onnipotente e buona, si pone, come tipo antitetico, la strega, ossia la madre dotata anch’essa di poteri magici, ma cattiva, con tutte le sue derivazioni. Qui ci basta, comunque, aver mostrato come la psicoanalisi possa far meglio comprendere la genesi profonda di una fra le tante multiformi creazioni della psiche infantile e primitiva.

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Gli adulti -si suol dire- non credono alle fate. Ma è esatta questa affermazione? Certo è esatta, se ci riferiamo alle soavi ed evanescenti figurazioni delle fiabe. Ma l’uomo moderno non ha completamente rinunziato all’ammirazione e al culto che un tempo rivolgeva a queste fantastiche creature. E come lo spettacolo o il romanzo d’avventure sostituiscono per lui le marionette o le fiabe delle prime età, così egli ritrova le sue fate, ad esempio, nelle “dive “‘ del mondo cinematografico. Dalla vita reale, piena di stimoli sgradevoli, di rumori, di luci vive, egli entra nel buio e nel silenzio della sala di proiezione, dove un nuovo incantesimo ha inizio: appaiono sullo schermo, bellissime, inaccessibili, lontane, immagini di donne presso le quali, e amati dalle quali, egli più o meno pensa si potrebbe vivere come in paradiso. Moltissimi elementi – il buio, la vicenda. romanzesca, l’assistere passivo e oblioso- trasportano lo spettatore in una sfera da cui ci si desta come gli eroi delle fiabe dopo aver avuto contatto col mondo delle fate. Che cosa rappresenta. dunque la ” diva”, per l’uomo moderno? Rappresenta, principalmente, una donna dalle qualità potenziate e infinitizzate, infinitamente bella, infinitamente amorosa, quasi soprannaturale: una donna, cioè, che al pari della fata sembra poter rendere nuovamente sperimentabile un’antica e’ perduta beatitudine. E questa beatitudine, l’uomo l’ha effettivamente conosciuta in un tempo, il più arcaico, della propria vita: quando, infante, godeva e ricambiava l’affetto senza limiti e senza nubi della propria madre;; che è l’unica persona, in sostanza, presso cui l’individuo umano possa sentirsi, almeno una volta, perfettamente e totalmente felice.
EMILIO SERVADIO

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